“9 Doigts” di Ossang. Perché il punk è ancora necessario

by Ines Pierucci
ines ossang

9 Doigts (9 Dita), Pardo d’Argento per la migliore regia al 70esimo Locarno Film Festival, è il nuovo thriller post-apocalittico e punk di F. J. Ossang.

In tutti i film di Ossang è presente la nave fantasma e salire a bordo del vascello Sri Ahmed Volkenson V., poi ribattezzato Marryat come lo scrittore inglese, tra i pionieri dei romanzi ambientati sul mare, è la meta e il fardello dello spettatore nonché del classico lettore d’avventure.

I protagonisti subiscono la maledizione e decidono di profilare un’immagine veridica dell’imbarcazione letteraria, provvedendo a collazionare le zone di testo che, pur provenendo da opere disparate, restituiscono, incastrandosi, la relativa scenografia navale.

È come assemblare un modellino, riflettono: si tratta di trovare le giuste corrispondenze; nella fattispecie, di saldare i brani letterari come fossero pezzi di meccano marinesco.

Nowhereland è l’isola dei rifiuti che appare l’obbiettivo dell’approdo ma è una zona virtuale, temporanea, “dove tutto può ricominciare, una zona terrestre dove le emozioni sono congelate”. È proprio a causa del tutto che si è passati al niente. “La natura ha l’orrore del vuoto, si sa. La cenere inizia, la vegetazione prosegue. La natura si riprende i suoi diritti”.

Gli esseri umani agiscono in modo remoto secondo Ossang come se si condensassero; non ci sono osservatori e gli spettatori sono complici della narrazione. “Abbiamo oscillato verso Il cinismo e il cinismo ci distrugge ci ammalerà, la gioia ci restituirà l’istinto della purezza”.

Incontriamo il regista francese in occasione dell’ottava edizione della rassegna “Registi fuori dagli schermi”, a cura di Luigi Abiusi, in corso a Bari presso il Cineporto.

Ad un certo punto “siamo legati come le dita di una mano ma possiamo sempre liberarci di un dito inutile”. Come nasce il film “9 Doigts”?

Il titolo, come tutto il film, lascia libero lo spettatore di immaginare il significato. Da sempre mi lascio ispirare dal cinema di genere che provoca immaginazione, esattamente come accade in letteratura attraverso un’ode o un sonetto. La pellicola nasce come un film noir, diventa un film d’avventura e va verso l’annientamento.

Il film, che omaggia il bianco e nero, tra presente e passato provocatoriamente disorienta lo spettatore. La luce, che taglia i volti dei personaggi come le nuvole tagliano la luna in cielo, ricorda il surrealismo de Un chien andalou di Buñuel. È d’accordo?

Adoro Buñuel. La scelta del bianco e nero è perfetta per la deterritorializzazione, così come per la definizione dei visi in maniera archetipale e la caratterizzazione dei paesaggi. Quello che poi si riscontra è che, anche con un budget ridotto, si riescono a fare cose più interessanti. 

Lei ha fondato tanti movimenti sulla video arte e sulle avanguardie. 

Ho cominciato con la scrittura e poi con la musica, il noise and roll, poi agli inizi degli anni 80’ ho scoperto la pellicola, che mi ha scioccato, tanto da decidere di girare sempre su pellicola. “9 Doigts” è stato girato su 35mm.

“La rivoluzione non è la causa ma l’avvertimento o la punizione”. 

Secondo lei i gilet gialli rappresentano oggi la rivoluzione in Francia?

È un movimento molto importante, sicuramente rappresenta un sintomo di insofferenza notevole da parte della società, forse arrivato troppo tardi rispetto alla deriva che ha preso il mondo.

È interessante perché va da destra a sinistra, senza colore. 

Il film è pregno di citazioni letterarie e artistiche da Artl a Magritte e Marryat e i personaggi sono loro stessi lettori. Qual è la letteratura alla quale si ispira?

Poe, Marryat, Rousseau sono le mie letture. Quelle del film non sono citazioni saccenti piuttosto sono punti fermi importanti che costruiscono una carta geografica ideale, che integro volentieri nei miei lavori. La letteratura alla quale mi ispiro è anche quella delle poesie di Dino Campana, del quale ho tutte le traduzioni francesi. 

Atalanta fugiens nel film è un rimedio per curare uno dei protagonisti dal polonio, ma è anche il titolo del libro di Michael Maier. Cinquanta discorsi filosofici al posto di un farmaco. Qual è oggi la medicina più potente che abbiamo a disposizione?

Potrebbe essere lo humor ultravioletto (ride).

Nonostante in Francia gli aspetti divertenti non vengono sempre capiti, i miei sono film noir dai tratti anche umoristici, e quello di Atalanta fugiens è uno di questi.

“Psychosis Safari” è il brano degli Eighties Matchbox B-Line Disaster che chiude il film. Il punk rock, da subcultura a moda, rappresenta la musica della rivolta e dei contenuti. Ha ancora senso oggi come genere destrutturante?

Ho avuto la fortuna di avere vent’anni durante il successo dei Sex Pistols.

Tra il 76 e l’84 nel punk confluivano varie contaminazioni: dalla new wave alla musica industriale che mi interessavano molto. Erano i tempi dei Cabaret Voltaire, dei Tuxedomoon e contemporaneamente c’era l’intuizione che il cinema, come la musica, veniva vissuto in maniera più profonda.

Allora per la nostra generazione la musica era un pretesto per l’agitazione e c’erano i situazionisti che diffondevano i concetti come il dadaismo e il tabula rasa. Non so se oggi ha più lo stesso senso ma sicuramente permangono delle spie come Guy McKnight,  il cantante dei The Eighties Matchbox B-Line Disaster, nonché protagonista del mio film “Dharma Guns” e del cortometraggio “Vladivostok”. La musica, ad ogni modo, per me è molto importante e rappresenta il primo fenomeno collettivista che ho riportato nel cinema. Dunque gli Stooges, così come Eseinstein o Fritz Lang sono artisti sullo stesso piano, per me senza una gerarchia di generi.

Ines Pierucci

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