American Animals, Layton filma il disagio della post adolescenza

by Giuseppe Procino

Il secondo capitolo della filmografia di Bart Layton arriva a sette anni di distanza da “L’impostore”, un documentario diventato, nel 2012, un piccolo caso e che aveva spiazzato pubblico e critica.

Era la sua opera prima e metteva subito in chiaro le doti narrative e il talento del regista. Durante questi sette anni Layton si è dedicato alla produzione esecutiva di diverse serie televisive in maniera assidua, tanto che avevamo ormai perso le speranze sulla possibilità di rivederlo all’opera con un altro prodotto per il grande schermo.

Sembra che l’attesa sia stata ampiamente ripagata: American Animals è un film convincente, un’opera seconda sbalorditiva.

La trama è quanto mai banale: nel 2004 due studenti del college decidono di commettere un reato che potrebbe cambiargli la vita, rapinare una biblioteca in cui sono custoditi dei libri antichissimi e dal valore inestimabile. Li accompagnano in questa impresa un nerd e il rampollo di una famiglia benestante. Il piano sembra essere perfetto (e forse lo è) ma le cose sembrano essere più complicate di quello che sembrano.  È la trama del classico Buddy movie condito con il crimine che il cinema hollywoodiano ci ha più volte rifilato, ma questa volta ci sono dei dettagli che fanno la differenza. Innanzi tutto quella che vediamo è una storia assolutamente vera, tratta dall’omonima opera di Erik Borsuk, uno dei protagonisti della vicenda e poi ci sono la scrittura e la regia, perfette, in grado di scavare nelle anime dei personaggi e di fornirci un quadro umano che crea una profonda empatia, ma ritmata, coinvolgente.

Layton è un abilissimo ingannatore, mischia le carte della resa scenica, confonde lo spettatore e sfonda con determinazione il vetro che separa la realtà dalla finzione. Il genere questa volta non è più il documentario ma un’ibridazione tra fiction e cinema del reale, in cui i veri protagonisti delle vicende narrate hanno facce cinematografiche, che bucano lo schermo, che ci illudono di essere a loro volta attori ingaggiati per recitare una parte. D’altronde American Animals, non è un racconto univoco ma la convergenza di diversi punti di vista, su cui alla fine resta il dubbio ai veri protagonisti stessi e allo spettatore su cosa sia vero e cosa sia inventato. Ogni personaggio ha la sua versione della storia e ognuna di queste versioni mette a nudo le personalità specifiche degli improvvisati rapinatori. A impersonare in maniera stupefacente le due menti principali dietro il piano, troviamo un ottimo Evan Peters, famoso per il serial “American Horror Story” (e che ci piacerebbe vedere più spesso sul grande schermo) e Barry Keoghan, già visto in Dunkirk di Nolan, sempre più utilizzato da una certa cinematografia autorevole.

Quello che Layton ci presenta non è un thriller ma un film su delle vite, sulla storia vera di una post adolescenza, un ritratto a tratti tenero di una generazione annoiata e spaesata bloccata nel limbo carico di aspettative tra scuola ed età adulta. In questo contesto narrativo, nessuno viene giudicato, sta allo spettatore etichettare i protagonisti come buoni o cattivi. Non si tratta del racconto di un manipolo di anime nere votate al crimine ma al contrario si tratta del racconto di anime pure, ventenni in cerca del loro posto nel mondo con la volontà di uscire fuori dal recinto di certezze di un futuro già scritto da famiglia e società. Ogni protagonista è alla perenne ricerca del coraggio necessario per poter essere libero o della necessità di lasciare un segno indelebile. Il crimine diviene questo: un mezzo per poter affermare la propria esistenza nel mondo come individui e non come appendici di un macrosistema ma anche la porta d’ingresso per una vita lontana dall’ordinario. Una piccola storia per raccontare il disagio di un’intera generazione.

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