Arancia meccanica: tutti gli interrogativi tra natura, cultura, musica e distorsione del linguaggio cinematografico

by Livio Costarella

Quando lo vede in sala per la prima volta, Luis Buñuel non ha dubbi: «È il mio film preferito», dichiara senza mezzi termini. E a cinquant’anni dalla sua uscita cinematografica è facile immaginare quanti continuino ad amarlo. Arancia meccanica, capolavoro di Stanley Kubrick del 1971, compie mezzo secolo e per l’occasione torna in proiezione, in versione 4K, dal 29 novembre all’1 dicembre 2021 nei cinema italiani, distribuito da Warner. Se sono davvero tante le curiosità fiorite attorno a questo intramontabile film, vale la pena evidenziarne alcune, per apprezzarne la forza e la profondità concettuale.

La pellicola di Kubrick esce per la prima volta a New York il 19 dicembre 1971, facendo passare un Natale piuttosto turbolento agli spettatori americani, colpiti dalla miscela straordinaria di ultraviolenza, musica colta, pop art e molto altro. In Italia il film arriva in sala nel settembre 1972, accolto da una copiosa sequela di polemiche e vietato ai minori di 18 anni (come in quasi tutto il mondo), bersagliato dalla censura dell’epoca.


A New York l’accoglienza era stata piuttosto fredda, ma le uscite dei 12 mesi successivi fanno di A Clockwork Orange un caso straordinario: costato 2 milioni di dollari, finisce per incassarne 114. Candidato a quattro Oscar nel 1972 come miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio, non ne vince neanche uno, scavalcato in tutte e quattro le nomination da Il braccio violento della legge di William Friedkin. Viene da sorridere pensando al giudizio miope dell’Academy dell’epoca, ma fa riflettere il modo in cui Kubrick trae spunto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess, costruendo un film altrettanto fantapolitico e futurista, con numerose e geniali intuizioni.

A cominciare dall’iconico Malcolm McDowell, che interpreta le gesta del protagonista Alex DeLarge, ed entra di diritto nella galleria dei personaggi impossibili da non adorare. Ebbene sì, le gesta violente e sconsiderate del leader dei Drughi generano empatia immediata agli occhi dello spettatore, per diversi motivi. Lo spiega anche Kubrick: «Le avventure di Alex sono una sorta di mito psicologico. Il nostro subconscio prova un senso di sollievo in Alex, proprio come gli accade nei sogni. Esso soffre nel vederlo imbavagliato e punito dalle autorità, mentre una buona parte della nostra coscienza ammette che deve essere così». In una intervista alla rivista Sight & Sound, aggiunge: «Nella maggior parte dei casi questo riconoscimento sembra portare a una sorta di empatia da parte del pubblico, ma rende alcune persone molto arrabbiate e a disagio. Non riescono ad accettare questa visione di sé stessi. E quindi si arrabbiano con il film. È un po’ come il re che uccide il messaggero che gli porta cattive notizie, premiando quello che gli porta le buone nuove».

Ma la strana e curiosa simpatia che suscita Alex è un elemento che scava nel profondo della coscienza dello spettatore: da una parte grazie alla geniale colonna sonora, a partire dalle stranianti trasposizioni elettroniche di Wendy Carlos; dall’altra emerge lo scontro tra natura e cultura, metafora finale di tutte le vicende di A-Lex (il nome del protagonista è sinonimo di «senza legge», come fa notare il critico Pierre Giuliani). Che ci guarda dritto in camera sin dall’inquadratura iniziale, con i suoi indimenticabili occhi: naturale il sinistro, truccato e «trasformato» il destro. In un film senza vincitori, dove buoni e cattivi costituiscono la stessa faccia della medaglia, viene da chiedersi soprattutto oggi quanto e come le convenzioni sociali controllino la libertà e il nostro essere. O quanto ci riducano in un’arancia robotizzata e meccanica, in una ciglia vera o finta.

La verità è che Arancia meccanica resta un’estrema riflessione sui limiti del libero arbitrio, e sul conflitto tra le pulsioni naturali e violente dell’uomo (l’inclinazione al male) e le istanze repressive di istituzioni come Stato, Chiesa, scienza e prigione (l’aspirazione al bene). Divenendo ben presto un manifesto indelebile degli anni ’50, ’60 e ’70, con gli evidenti riferimenti alla pop art: pensiamo all’arredamento del Korova Milk Bar, o della casa dello scrittore malmenato al ritmo di Singin’ in the Rain; o al gusto kitsch e iper cromatico dei DeLarge, senza dimenticare l’abbigliamento dei drughi (abiti bianchi, bombetta e anfibi neri). Tutti elementi che contribuiscono a dare al film un’aura satirica e parossisticamente realista.

L’altra caratteristica che rende il film un unicum è la colonna sonora. Che spiazza lo spettatore di continuo, rendendo il linguaggio cinematografico – come spiega Giorgio Cremonini – «schizofrenico, continuamente spostato e decentrato, fondato su irrisolti accostamenti dei contrari». Prendiamo la sequenza iniziale del film: il brano che udiamo è Music for the Funeral of Queen Mary, del compositore inglese di musica barocca Henry Purcell (1659-1695). Ma è stravolto elettronicamente da Wendy Carlos, ed è il primo degli spiazzamenti che si offrono allo spettatore, in un gioco dei contrari che si ripete fino al termine. Il nostro occhio è subito messo alle strette da una serie di opposti che si compenetrano: i totali rossi e blu iniziali, sono seguiti da una prevalenza di bianco, nero e grigio (gli interni del Korova Milk Bar); i Drughi ingurgitano latte (la bevanda più innocente che esista) mescolato con delle droghe; Alex, nel lento zoom all’indietro guarda fisso in camera, cercando complicità nello spettatore, al quale si rivolge confidenzialmente in veste di voce narrante. In tutto ciò, la musica di Purcell dipinge un effetto sinistro, giocato sui contrasti fra impianto melodico ed entrate delle percussioni. In pochi secondi scopriamo un mondo raggelante e privo di senso, e l’ode funeraria di Purcell diventa un presagio di morte e violenza, con la focalizzazione visiva dello spettatore che passa da interna ad esterna.

Poi ci sono le due ouverture di Gioachino Rossini (1792-1868): quella de La gazza ladra teatralizza e aliena dal violento pestaggio a cui stiamo assistendo, all’interno di un teatro abbandonato, tra i Drughi e la gang di Billy Boy; quella del Guglielmo Tell compare nella sequenza in cui Alex fa sesso con due ragazze conosciute nel negozio di dischi, velocizzata ad hoc per rendere il ritmo bizzarro e grottesco. La prima e la quarta Marcia, tratte da Pomp and Circumstance di Edward Elgar (1857-1934) costituiscono una caricatura delle istituzioni: i brani consentono a Kubrick di mettere alla berlina la burocrazia, soprattutto quella delle forze di polizia, nella sequenza delle ripetute firme di Alex, prima di iniziare la «Cura Ludovico».

Un breve ascolto della suite sinfonica Sheherazade di Nikolaj Rimskij-Korsakov (1844-1908) accompagna le fantasticherie erotico-sessuali di Alex, che sogna di essere un soldato romano attorniato da odalische servizievoli e consenzienti. Ma la colonna sonora di Arancia meccanica si impernia definitivamente sulla Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven (1770-1827): il secondo e il quarto movimento del capolavoro del compositore tedesco vengono utilizzati da Kubrick come leitmotiv dell’anima di Alex. Il protagonista è dedito all’esercizio dell’amata ultraviolenza, ma è anche capace di ispirarsi alla musica di Beethoven, per le proprie gesta criminali. Eppure, nella gioia di Alex tutta violenza e sessualità, non troviamo nulla della gioia che professano Beethoven e Schiller. Semmai vi è il suo uso pop, distorto e rovesciato, una contraddizione che rivela l’amore per l’arte, ma contemporaneamente anche la sua designificazione. Alex ama Beethoven, e non vi è alcun dubbio. Molti ce ne sono invece sul fatto che la musica possa migliorare la natura umana. E un film come Arancia meccanica cosa fa? Ci pone questo interrogativo forte e chiaro, dall’inizio alla fine. «Come un lago senza fango Sir – direbbe il protagonista -, così limpido come un cielo d’estate sempre blu».

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