Antonio Pietrangeli, un regista che le donne le conosceva bene: Nata di Marzo, La Visita, Io la conoscevo bene

by Gabriella Longo

Roma, 20 luglio 1950. L’estate nella capitale è al solito torrida, e in via della Vite si consuma “la zuffa del prendisole”. Casus belli, il gesto di Edith Mingoni in Toussan di scoprirsi le spalle: “abominevole”, a detta del democristiano Oscar Luigi Scalfaro. Il fatto, che fece discutere e ridere, fu qualcosa di più di semplice cronaca. In un’Italia perennemente sgomenta dagli eccessi, quel gesto è quasi sintomo di un corpo che ha voglia di “scoprirsi” e di “eccedere”, cosa che il cinema non avrebbe perso occasione di raccontare nelle sue molteplici declinazioni.

Tragitto esemplare, in tal senso, è quello di Pietrangeli regista, così acuto osservatore del mondo femminile, uno di quelli che le donne le conosceva davvero bene. Complice forse la collaborazione agli esordi della sua carriera con Alberto Lattuada, quel “cantore specializzato del risveglio di una sensualità troppo a lungo repressa” (citando Giacomo Manzoli).

E non è un caso che la protagonista di Nata di marzo (1958), sia proprio Jacqueline Sassard, la “jeune en fleurs” di Lattuada, bellezza fra le bellezze acerbe della nuova generazione femminile del cinema (fra cui anche Catherine Spaak). “Io sono nata di Marzo!”: una scusa bella e buona, un refrain abusato dalla diciassettenne Francesca perché il mondo ne giustifichi gli infantilismi e le avventatezze.

Ma è anche simbolo del prototipo di quella donna nuova che sgomita per emergere e che il cinema di Pietrangeli ha colto in tutta la sua portata innovatrice: incostante, marzolina, per l’appunto. Uno sguardo scambiato in un tram affollato di Milano, e Francesca sposa un ben più maturo Alessandro, qui Gabriele Ferzetti promosso da modesto idraulico gaglioffo di Souvenir d’Italie a elegante e garbato architetto. Lui le fa da marito e da padre, e a lei per un po’ sta bene avere una casa in cui giocare con la disposizione dei mobili. Fino a quando fra i due ci mettono il dito le ore passate ad aspettarsi, lo scarto generazionale e un ruolo che, probabilmente, Francesca, umorale, volubile, capricciosa, non si sente cucito addosso in nessun caso.

Il marito, che ne scoraggia l’emancipazione, il mondo fuori, quello dei vicini ficcanaso, vorrebbero contenerne il magma ribollente, mentre lei fa bizze, strepita, strilla, non solo per colpa del mese natio, ma per protestare, scendendo sintomaticamente in difesa di una prostituta arrestata strillandole “Sono solidale! Sono solidale!”, dopo che, in una ennesima discussione, Alessandro l’aveva fatta sentire esattamente così. Ma la consapevolezza non la renderà meno sola, come del resto tutta l’umanità del cinema di Pietrangeli: il vuoto, l’amarezza, l’ansia della società dei consumi che è già lì, sul terrazzo, sotto forma di prato sintetico, e di mille oggetti accumulati per dare un senso alla distanza infinita fra gli esseri umani, fra Alessandro e Francesca, che sono costretti ad arrivare alla separazione. E non basterà il lieto fine assai stonato, imposto a Pietrangeli da Carlo Ponti a cancellare la sensazione di aver assistito a una sorridente commedia italiana apparentemente edulcorata dai conflitti, ma che invece scava senza remore in questo abisso d’umana e incolmabile distanza.

Soli, in un percorso saggiamente ellittico, tragici e macchiettistici al contempo, sono anche i personaggi de La Visita (1964), sui quali cala lo sguardo sempre meno fatto di strizzate d’occhio, e se possibile ancora più implacabile di Pietrangeli.

Molto diversa dalla donna della precedente pellicola è Pina, qui Sandra Milo, fresca dell’interpretazione dell’amante del regista Guido Anselmi in Otto e mezzo. Trentasei anni, nubile e “culandrona”, Pina è la caricatura per eccesso della femminilità tradizionale, ma che si è fatta largo nel mondo maschile a colpi di fianchi ampi e posticci. Lavora come contabile, amministra con successo il suo denaro, vive defilata nella sua villetta fuori città, frequenta un uomo sposato, e contribuisce ad innalzare notevolmente l’età da marito dell’intera nazione.

Una vera outsider, moderna, così come la strategia della posta del cuore di un giornale, scelta, ad un certo punto, per colmare il grande vuoto del cuore, finora riempito da ingombranti arredi kitsch, dalla voce impertinente di un pappagallo, dai comfort del miracolo economico (che a detta di Nino Manfredi/Meciotti ne La Parmigiana, è stato tutto fuorché divino).  Un fitto scambio di missive, conduce all’incontro in presenza con Adolfo (Francois Périer), libraio romano che pare non abbia nessun interesse a restare nella capitale ancora a lungo. Compendio umano di mascolinità prevaricatrice e falsamente pudica, Adolfo – e la regia di Pietrangeli – soppesa avidamente Pina, le sue attrattive la sua casa e tutto ciò che essa contiene (animali esclusi). Mai come in questo caso, a carte scoperte, fatta una reciproca confessione sugli amanti, lo sdegno di Adolfo alla notizia che Pina è esattamente come lui, è proprio come il timore reverenziale di Peppino de Filippo davanti al manifesto e poi al corpo di Anita Ekberg, simbolo mostruoso, conturbante di una femminilità sfuggita al controllo dell’uomo, al punto tale d’apparirgli enorme e “abominevole”, rubando il termine a  Scalfaro (troppo succulento era stato l’episodio del prendisole perché Fellini, Pinelli e Flaiano non decidessero di dedicargli nel 62’ le impietose Tentazioni del Dottor Antonio).

Scivolati ormai nel pieno dei fatidici anni ’60, il mondo si emancipa davvero e il tono di Pietrangeli si fa sempre più nero, la disperazione sempre più aerea, i corpi delle ragazze sempre più inafferrabili. L’apparizione di Stefania Sandrelli in fulgore adolescenziale nell’ultimo capolavoro del regista, Io la conoscevo bene (1965), avviene sulle spiagge d’Italia toccate dal boom, lambite d’una sonnolenta malinconia accentuata dall’abuso della canzonetta. Complessa, tragica, Adriana si agita nella sua casa del moderno Quartiere Portuense e in una Roma e in un’Italia con l’ansia del sorpasso. La sua è una marcia di morte, feroce ma non priva di indicibile tenerezza, scandita dal tentativo di farsi largo nella corsa al successo come attrice di cinema con la sua sola fresca bellezza e con una fiduciosa gratuità affettiva con cui coltiva i suoi rapporti liberi.

Ma il mondo, glielo dirà l’amica Barbara ben più navigata, non comprenderà mai la sua condotta, il suo passare da un amore ad un altro senza alcun senso di opportunità e convenienze. E invece Adriana, venuta dalla dimensione arcaica e rurale della famiglia d’origine, ha proprio voglia di scoprirsi, scansando istintivamente i ruoli di mantenuta o prostituta.

La sua soggettività è un dato opaco e mobile per Fausto (Joachim Fuchsberger), che la usa per poi costruirne un ritratto inerte e incostante, una donna amorale che non è riuscita nemmeno a meritarsi di essere una “puttana”. Ma non riesce a capirla nemmeno il cinema che le riserva la più magistrale delle mortificazioni, inferta nella sala gremita dell’Eurocine, come un pubblico disvelamento degno delle più grandi relazioni pericolose della letteratura. Lì la vediamo apparire sul grande schermo, in un’intervista intitolata Un volto nuovo, esposta nelle attualità cinematografiche come un’arrivista un po’ tonta e disposta a tutto.

Ed è come se tutto il cinema di Pietrangeli volesse arrivare ad Adriana, al suo modo innocente d’amare e di vivere, libero ma mortificato da un bigottismo che ha solo cambiato pelle, fragile e pronta al fatidico salto letale.

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