Carlo Lizzani, la vocazione del testimone

by Orio Caldiron

Nessun altro regista italiano ha come lui la vocazione del testimone, di chi ha vissuto al presente la storia del cinema, ma spesso anche della società, e può dire io c’ero. Nessuno più di Carlo Lizzani – che nel ‘48 è stato sul set di Germania anno zero con Rossellini e di Riso amaro con De Santis – ha condiviso dall’interno le contraddizioni del cinema italiano del dopoguerra, sospeso tra documento e spettacolo, inchiesta e affabulazione. Nei suoi scritti sul neorealismo nessuno riesce come lui a storicizzarlo nelle diverse componenti che ne costituiscono la sua fiammeggiante vitalità. L’ibrida ma esplosiva rivoluzione neorealista lavora sui nuovi contenuti nel momento in cui rinnova le forme espressive. Il rapporto tra individuo e collettività, tra uomo e paesaggio, è alla fonte dell’esuberante cortocircuito che lo caratterizza assieme alla miscela dei generi e alla nuova concezione dello spazio e del tempo, che lasceranno il segno sulle future nouvelle vague.

STORIE DEL NOVECENTO

La storia del Novecento rivive nella sua attività di regista da Achtung! Banditi! (1951) a Cronache di poveri amanti (1953), da La muraglia cinese (1957) a Il processo di Verona (1963), da Mussolini ultimo atto (1974) a Caro Gorbaciov (1988), senza contare le decine di film televisivi dedicati tra l’altro a Giorgio Amendola (Un’isola), al terrorismo (Nucleo Zero), al caso Dozier (Stato d’emergenza). Chi può dire come lui di aver girato nelle maggiori città italiane e europee, negli Stati Uniti, in Africa, in Cina, India, Giappone, Corea, Vietnam, Birmania? Saggista e critico, è stato anche storico, militante politico, sceneggiatore, direttore della Mostra di Venezia, presidente dell’Anac, docente al Centro Sperimentale e in tante altre sedi con la singolare disponibilità pedagogica che contraddistingue chi, insegnando, continua a imparare, a aprirsi alla non fiction, alle nuove tecnologie. Se ha cominciato come documentarista, non ha mai smesso di raccontare il cinema attraverso il cinema in una serie di lucidi ritratti dedicati a Luchino Visconti (1999), Roberto Rossellini (2001), Cesare Zavattini (2003), Giuseppe De Santis (2008). Si rischia sempre di trascurare qualche aspetto della sua instancabile operosità, sfociata nel 2007 in Il lungo viaggio nel secolo breve, l’appassionante autobiografia che si sarebbe tentati di considerare il suo film più bello scritto sulla carta. Non può sfuggire, ripercorrendo le pagine di una vita nel segno del cinema e dell’immagine audiovisiva, che tutto rimanda ai valori umani, etici, civili, politici, se non al suo rapporto con il comunismo, entrato in crisi sin dal suo primo viaggio in Cina. Senza dimenticare il resto, seguiamolo ora nelle sue trasferte milanesi, nella convinzione che i viaggi del regista romano nella città lombarda siano altrettanti incontri con un altrove in cui sta per succedere, o magari è già successo, qualcosa che ci riguarda da vicino.

LA MILANO DEL DOPOGUERRA

Sul set di La vita agra (1964) ritrova con nostalgia la Milano della lontana bohème del 1945 in cui Giuseppe De Santis e Gianni Puccini gli offrono l’occasione di seguirli al nord per fare “Film d’oggi”, il settimanale che avrebbe dovuto riprendere e proseguire le battaglie di “Cinema”, sulle cui pagine non pochi protagonisti di quello che sarà il neorealismo si erano incontrati per la prima volta. Sono vicende che lo stesso regista ha rievocato più volte, dal viaggio sulla camionetta traballante durato quarantott’ore tra strade sconnesse, blocchi militari, ponti impraticabili, ai primi contatti con una realtà nuova, difficile, ma esaltante: “Gran parte della città è in macerie, ma basta un primo contatto con l’ambiente giornalistico e artistico per farci sentire Roma lontana e provinciale. Dopo anni di coprifuoco, gironzolare in una città finalmente non avara di luci, soprattutto nel triangolo di Brera, Solferino e corso Garibaldi, è un piacere così inusitato che tentiamo di assaporarlo il più a lungo possibile. Durante quelle veglie si canta, si scherza, si inventano epigrammi e favole. Il bar Giamaica e la latteria Pirovini erano centri di discussioni, festini, cene indimenticabili (fatte di qualche pallido cappuccino e di esangui omelette), e dove tanti giovani o meno giovani, pittori, letterati, musicisti, si arrovellavano come noi sui modelli artistici e comportamentali finalmente a portata di mano dopo il crollo del regime, la fine della guerra e la Liberazione”.

Parecchi anni dopo la latteria Pirovini è uno dei mitici luoghi di riferimento nella geografia milanese di La vita agra, il romanzo di Luciano Bianciardi che quando esce nel 1962 ha un grande successo soprattutto per le intonazioni risentite e beffarde con cui coglie le illusioni e le frustrazioni del neocapitalismo che comincia a imporsi nel nostro paese. Il rapporto tra Bianciardi e Lizzani andrebbe approfondito più di quanto non sia stato fatto finora, sia per la complessità della figura dello scrittore toscano, a cui non sono estranee le frequentazioni cinematografiche, dall’attività di organizzatore di cineclub alla sarcastica rappresentazione di tutta un’epoca di astratti furori nella piccola bibbia di miti e riti di fine anni cinquanta che è Il lavoro culturale. Il volumetto, uno dei primi dell’Universale Economica della casa editrice Feltrinelli appena nata, contiene pagine straordinarie sulle liturgie dei cineclub e sui tic del gergo critico dell’epoca. Sia per la partecipazione alla sceneggiatura del film tratto dal romanzo, non accreditata nei titoli di testa nonostante il rilievo del suo apporto personale più volte riconosciuto dallo stesso regista: “Su questo terreno, il terreno della nostalgia per un certo tipo di Milano, ci trovammo veramente affratellati, più di quanto non lo fossero con lui gli sceneggiatori Amidei e Vincenzoni e il produttore Nino E. Krisman che nel film impersona il Presidente. Questa è la ragione per la quale io ho voluto questa frequentazione con Bianciardi, quasi obbligandolo a impegnarsi più di quanto non faccio con altri scrittori nella stesura di un film. Valutammo insieme, con Bianciardi e con Ugo Tognazzi, in che misura alcuni monologhi, alcune pagine molto belle potevano reggere a un primo piano cinematografico, essere tradotti in mimica oltre che in voce”.

La vita agra

DAL ROMANZO AL FILM

La trasposizione cinematografica del libro rappresenta una sfida per vari aspetti temeraria. Come affrontare le componenti autobiografiche, linguistiche, parodiche, grottesche di un testo che si concede volta a volta alla divagazione erudita, allo sfogo rabbioso da allegra apocalisse, incerto tra l’aspirazione a dire tutto in modo esplicito e la tentazione della sottolineatura criptica, dell’allusione irridente, del pastiche à la manier de? Il film non segue il libro nel suo gioco di rimbalzo tra l’io e lo sperimentalismo, tra l’autobiografia e il miracolo economico. Certo, inizia con Luciano Bianchi/Ugo Tognazzi che alla stazione guarda in macchina per raccontare cosa è successo prima della decisione di Anna/Giovanna Ralli di lasciarlo e ritornare a Roma e finisce con l’ultimo sguardo arreso e impotente tra loro due. Ma in mezzo non c’è soltanto la storia di Luciano e del suo folle progetto di far saltare in aria il torracchione dell’azienda responsabile della tragedia nella miniera in cui lavorava come bibliotecario. I materiali del romanzo, ampiamente utilizzato servendosi spesso degli stessi dialoghi, sono integrati da altri spunti narrativi, attinti da L’integrazione, che risale al 1960. Visto oggi, il film è di difficile collocazione nel cinema italiano dei primi Sessanta in cui, tra gli ultimi trionfi del peplum e i primi annunci del western spaghetti, sono numerosi i film importanti. Ma nessuno sembra cogliere lucidamente il cambiamento in corso nella società italiana come La vita agra, che delinea con uno sguardo freddo, entomologico, ma capace di improvvise accensioni, la mappa del nostro discutibile futuro.

L’UNIVERSO DELLA PUBBLICITÀ

Un futuro dietro l’angolo, in cui le automobili in doppia fila impediscono ai pedoni di passare se non grazie agli acrobatici accorgimenti di ogni giorno. Le strade piene di buche sono sottoposte a continui, ossessivi, assordanti rifacimenti. I rari flâneurs, sorpresi a passeggiare senza meta per il solo piacere di farlo, vengono portati direttamente in questura da baffuti agenti dall’aria torva. Non si contano gli sberleffi al mondo aziendale e ai suoi ambigui meccanismi di selezione, come alle case editrici con i loro ferrei criteri redazionali, preoccupati soltanto di tener lontani l’estro e l’inventiva. Né si trascura l’amara delusione nei confronti dei partiti politici, dove i rapporti umani sono sostituiti da vacui, burocratici nominalismi. L’universo della pubblicità è uno dei capitoli più vivaci con i suoi subdoli rituali di persuasione di massa attraverso cui si innesca la fiera dei bisogni inutili, coatti, artificiali. Il consumismo più dissennato si impone nell’esposizione delle merci dei grandi magazzini nelle città satelliti, dove si moltiplicano i monitor dei televisori, che già incombono con il loro ipnotico accendersi e spegnersi.Non mancano i momenti divertenti – come lo sproloquio sul sesso, che sbeffeggia il micidiale ideologismo dell’epoca – ma si ride poco e si ride amaro. Certo, i toni sono quelli della commedia, ma non viene mai in mente l’impietosa cattiveria della commedia all’italiana. Si pensa piuttosto ai toni distaccati e inconsueti di una commedia seria che si muove sotto il segno di Saturno, vagheggiando la bellezza della sconfitta. Sullo sfondo appare un paio di volte Enzo Jannacci che con la sua voce alla cartavetrata ribadisce la chiave della malinconia con i toni dissonanti delle sue canzoni.

LA VIOLENZA METROPOLITANA

Se tanti suoi film si rifanno al passato, questosi pone in sintonia con il presente. Ma è anche la soglia attraverso cui passa l’attenzione che negli anni immediatamente successivi il regista avrà per le cronache del nord, raccontate in diretta con il ciglio asciutto: “Oggi, a distanza, penso che sia stata proprio la lezione di La vita agra a farmi scegliere man mano – fra i tanti fatti di cronaca, di violenza che dilagavano sulle pagine dei giornali – quelli in cui riconoscevo con sempre maggiore chiarezza i tratti di una società che aveva preso a correre in modo via via più febbrile verso due traguardi: il consumo e il successo”. Svegliati e uccidi (1966) è un riuscito istant movie su Luciano Lutring, il solista del mitra arrestato pochi mesi prima a Parigi che aveva cominciato la sua carriera con la rapina alla gioielleria di via Montenapoleone. Il taglio giornalistico, secco e veloce, smitizza la figura del mediocre performer del crimine, il balordo impegnato a far colpo sulla splendida Lisa Gastoni che canta Che cosa c’è di Gino Paoli.

Banditi a Milano (1968) è girato a caldo pochi mesi dopo la rapina al Banco di Napoli di largo Zandonai, dove la banda di Piero Cavallero quando si accorge di essere braccata dalla polizia comincia a sparare ai passanti nel corso di un vertiginoso inseguimento che finisce nel sangue. Sospeso tra mimetismo e spettacolo, è un affondo sulla violenza metropolitana in cui la componente della rappresentazione è inscindibile dall’evento, il gesto è tanto più clamoroso quanto più si celebra come messinscena. Straordinario l’apporto di Gian Maria Volontè che rende memorabile l’inconsueta figura del bandito, il suo irridente esibizionismo. Storie di vita e malavita (1975) nel rievocare sei episodi di giovanissime prostitute sfuma sul racket, l’immigrazione, l’ignoranza, l’ipocrisia della società per puntare tutto sulla sgradevolezza degli avvenimenti, esludendo ogni possibilità di lieto fine. San Babila ore 20: un delitto inutile (1976) coglie l’intreccio tra criminalità e politica in un sottovalutato reportage sul neofascismo. Il film morde la cronaca quotidiana dell’ordinaria follia sporcandosi le mani nell’universo frastornante della violenza gratuita, in cui l’alibi politico si accompagna all’esibizionismo velleitario. Nella Milano nera del regista romano – nelle cronache tra i Sessanta e Settanta che hanno oggi il sapore amaro del documento d’epoca – forse non è sbagliato riconoscere una delle stagioni più fertili della sua lunga attività cinematografica affacciata sulla ambigua modernizzazione italiana.

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