Ettore Scola e i viaggi nella storia

by Orio Caldiron

Nel mercato sotto il ponte di Saint Michel la folla assiste alla nuova attrazione dei girovaghi italiani, appena approdati sulle rive della Senna. La cassetta del Mondo Nuovo, che incarna la metafora essenziale del teatro, mette in scena il rapporto con la storia, in cui le consapevolezze del presente rimbalzano negli interrogativi del passato.

Ma è anche lo spazio chiuso della diligenza in cui i protagonisti di Il mondo nuovo di Ettore Scola riflettono sul momento storico in cui sono immersi, rappresentando le diverse prospettive della dama di corte, la contessa austriaca Sophie de la Borde, dello scrittore inglese Thomas Paine, dell’industriale Vendel, della vedova Adelaide Gagnon, della cantante lirica Virginia Capacelli e del magistrato De Florange che l’accompagna, mentre Jacob, il parrucchiere della contessa, flirta con il postiglione e lo studente Emile e la cameriera Maddalena amoreggiano tra i bagagli.

L’INCONTRO CON GIACOMO CASANOVA

Lo stimolo della curiosità e l’insaziabilità del voyeur – ma non è l’identikit dell’autore cinematografico? – si incarnano in modo esemplare nello straordinario personaggio di Nicolas‑Edme Restif de la Bretonne che corre da una parte all’altra del film, incalzato dall’ossessione di essere sul posto e di cogliere l’attualità in fieri. Sin dalla sua prima apparizione, fiuta il mistero degli affannosi andirivieni e dei furtivi tramestii che durante la notte avrebbero sconvolto la routine di palazzo reale. I sovrani sarebbero in fuga, confermando le voci che corrono da più di un mese?

L’inquietudine mercuriale, il gusto per l’intrigo misterioso, il senso dell’avventura sono i tratti dello scrittore‑detective che in modo particolarmente suggestivo, quasi da giallo, avviano il meccanismo del viaggio mentre predispongono l’incontro con Giacomo Casanova, braccato dagli emissari del conte di Waldstein decisi a riportarlo nel castello in Boemia per fargli riprendere le sue mansioni di bibliotecario‑buffone di corte. L’incontro “impossibile” anima alcuni dei momenti più significativi dell’intero film. Quando ospita Restif nel suo cabriolet, Casanova, che viaggia in incognito e si presenta come il cavaliere di Seingalt, si scuote dal dormiveglia solo al sopraggiungere della diligenza. Non intende assolutamente mangiare la polvere e, allacciate le cinture, costringe il postiglione a lanciarsi in un sorpasso spericolato, in cui, finalmente di buon umore, sembra dimenticare gli acciacchi dell’età e ritrovare le energie perdute.

Il cabriolet giunge finalmente alla stazione di posta. Il cavaliere si affretta con il suo nécéssaire da viaggio verso lo stanzino di decenza. Mentre Restif intervista lo stalliere per ricostruire il passaggio della berlina misteriosa, «grande, grandissima, mai vista una carrozza così», Giacomo dispone sulle ginocchia vasi, vasetti, pennelli e piumini per darsi una ripassata al trucco. Si dipinge di rosso le labbra come una bagascia e si dà il bianco alla faccia. Si guarda allo specchio inforcando un paio di spessi occhialetti mentre rinforza il bistro sugli occhi. Quando si toglie la parrucca per incipriarla, scopre i radi capelli scomposti che mette in ordine con le mani. La nuvola di polvere di riso lascia intravedere un vecchio quasi calvo dallo sguardo smarrito.

Si direbbe che i conversari amorosi lasciati a mezzo nella diligenza, la digressione mozartiana e l’elogio del passato di poco prima siano altrettanti, progressivi avvicinamenti allo scambio di battute tra Giacomo e la contessa Sophie, che sul ciglio della strada scorge fra i resti di un frettoloso déjeuner sur l’herbe un fazzoletto con lo stemma della famiglia reale. La contessa austriaca gli confessa che, vistolo a corte quando aveva quindici anni, è stato il primo amore della sua vita. Ma anche questa allettante provocazione, come più tardi quella più esplicita della vedova Gagnon, non scuote lo sguardo assente del vecchio gentiluomo, chiuso nel suo cerimonioso declino. Sospesa tra passato e presente, tra ritrovamento e addio, è quasi una tragedia in due battute, una scena madre che, invece di esplodere, implode in se stessa, deflagra silenziosamente nelle segrete intermittenze del cuore.

IL TRITTICO FRANCESE

Nel trittico francese che va da Il mondo nuovo (1982) a Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), Ballando ballando (1983) rappresenta una sorta di intermezzo. Ettore Scola vi recupera il gusto del disegnatore satirico, coltivato sin dalla stagione dei giornali umoristici, moltiplicando i personaggi che si animano e acquistano spessore a partire dai tratti appena sbozzati della raffigurazione caricaturale, in cui i tic fisici, comportamentali, psicologici di ciascuno tendono al grottesco. Si tratta di un film‑scommessa che, desunto dallo spettacolo del Théâtre du Campagnol di Jean‑Claude Penchenat, rinuncia al parlato del tradizionale film narrativo per affidarsi esclusivamente alla musica e al gesto di un gruppo di personaggi‑maschere, incaricati di ripercorrere cinquant’anni di storia francese, in cui si riflettono gli avvenimenti dell’Europa e del mondo. La memoria, sospesa tra passato e futuro, è ancora una volta al centro degli interessi del regista, che continua a interrogarsi sul tempo e la storia, fino a farne lo scenario privilegiato della sua indagine, così attenta alle emozioni, ai sentimenti, ai cortocircuiti tra pubblico e privato.

CINQUANT’ANNI DI STORIA

La scelta del luogo chiuso è fondamentale anche in Ballando ballando in cui la sala da ballo è il teatro dell’azione, intesa ancora una volta come scatola magica che, grazie agli andirivieni dei flashback e ai sinuosi movimenti di macchina, si apre al viaggio dentro il passato, attraverso le sedimentazioni dell’immaginario popolare. Il centro strategico del film è il corpo che nel ballo sembra trovare una sorta di continuo ampliamento e di riduzione all’essenziale. Come in un gioco di specchi, a cui non è estraneo il senso del teatro, tra l’azzardo dell’improvvisazione e la fedeltà al testo, i corpi dei ballerini vengono trascrivendo le impervie modalità del discorso amoroso, fissando nel pentagramma altrettanti punti di non ritorno, in cui, tra avvicinamenti e allontanamenti, si inscrive la loro vocazione alla solitudine. Senza cedere alla nostalgia o alla massificazione, perché le articolazioni interne e le scansioni strutturali riescono a contemperare la visione d’insieme, l’incalzare del tempo inesorabile e vorace, con le folgorazioni individuali, gli assolo dei singoli, colti nella loro irriducibile vulnerabilità. Quando verso la fine risuonano le note di “Que reste‑t‑il de nos amours” di Charles Trenet è difficile sfuggire alla sofferta lacerazione dei ricordi personali.

IL CAPITAN FRACASSA

Il viaggio di Capitan Fracassa accentua il rapporto con il teatro che, attraverso la mediazione del precinema, era fondamentale anche in Il mondo nuovo. La struttura teatrale è dichiarata esplicitamente fin dall’inizio del film che comincia con un carrello in avanti verso il palcoscenico che si apre e finisce simmetricamente con il palcoscenico che si chiude, suggellando il viaggio verso Parigi. Se la diligenza di Il mondo nuovo riprende il modello fordiano di Ombre rosse – chiamato a storicizzare il paradigma della varia umanità in viaggio nella compresenza delle diverse prospettive se non delle componenti sociali del contesto storico – il carro dei comici è tutto immerso nella metafora teatrale per cui i protagonisti della vicenda coincidono con i personaggi a cui danno vita sulla scena. Sono sopraffatti dalla dialettica tra realtà e rappresentazione, tra vero e falso, si agitano e si ribellano alla loro condizione per ritornare a riconoscersi alla fine nella maschere che hanno indossato per tutta la vita, condannati a condividerne in qualche modo le scelte e i destini.

Se nessuno si sottrae al gioco illusionistico della scena, la forza mitopoietica del teatro fa del carro dei comici una sorta di casa viaggiante della vita, in cui le persone e i sentimenti nascono e muoiono per continuare a nascere di nuovo, a cambiare, a trasformarsi. Lo spazio chiuso della scena teatrale, che sembra muoversi in una realtà di cartone, tra le quinte logore e immutabili della coazione a ripetere, si apre ai soprassalti del tempo e della storia, in cui filtra il caldo soffio della vita. L’irruzione della temporalità – sospesa tra la vita e la morte, la scoperta dell’amore e la delusione sentimentale – implica un’articolazione strutturale più sofisticata e complessa, attenta al gioco del doppio, alla scansione dei flashback, al ritmo insinuante dei movimenti di macchina che, nelle elaborate traiettorie del teatro nel teatro, allargano lo spazio della visione fin quasi a farlo uscire dal quadro.

TROISI PULCINELLA

La dialettica tra servo e padrone, che si istaura sin dall’inizio tra Pulcinella e il giovane barone di Sigognac, è uno dei fili conduttori dell’intero film che, grazie alla partecipe interpretazione di Massimo Troisi, diventa un irresistibile tormentone. Pulcinella ce la mette tutta perché Pietro, affidandogli tutti i suoi risparmi, gli assicura che, giunti a Parigi, avrebbero potuto contare sulla gratitudine di Luigi XIII. Il vecchio barone aveva salvato la vita al padre del re, ricevendone in dono la spada che è l’unica ricchezza rimasta ai Sigognac: reintegrati nel titolo e negli averi, sarebbero tornati agli antichi splendori. La bella favola contagia subito tutti i comici. Pulcinella diventa una sorta di servo‑padrone per insegnare a Sigognac a comportarsi da padrone: «Se io devo essere il vostro servitore ubbidiente voi dovete essere un padrone autorevole. Perché mi date questo voi? Il tu mi dovete dare, io sono un servo. Tu, tu, tu fai questo, tu fai quello, tu aiutami a salire, ti faccio vedere come si fa. Che ci vuole? Prima cosa: sguardo fiero, spalle dritte, state su. Camminate tutto così su ‘sto cavallo. Con un servitore come me farete invidia a cani e porci. E a me che mi darete in cambio? Mangiare, dormire, bere, vestiti».

Servitore di un padrone che non sa fare il padrone, Pulcinella non esita a ispirarsi ai servi delle farse interpretate sul palcoscenico. Quando, irritato per il comportamento del duca di Vallombrosa invaghitosi di Isabella, Sigognac lo tratta male, crede di aver raggiunto lo scopo: «Ma quanto siete bello, barone. Come mi trattate male, cioè bene. Voi siete un vero padrone incazzoso, autoritario e fesso come tutti i padroni». Il rapporto è diventato in realtà più complesso, passando attraverso le varie fasi di un progressivo avvicinamento umano e sentimentale, in cui, nella condivisione della vita in comune, si compiace delle sue prime imprese amorose e del suo cambiamento d’umore, prima sempre cupo mentre ora è allegro, sorridente, scatenato. Se cerca di impedirgli di calcare la scena, diventando uno zompafossi, uno zingaro come tutti gli attori, alla fine gli presta la sua maschera di cuoio in un atto decisivo di affiliazione. Quando nella sequenza d’inizio Pulcinella, avvolto in una coperta come in uno scialle, è in trepidazione per la salute del giovane come fosse suo figlio, si direbbe che il papà è diventato mamma, una umanissima madre apprensiva e iperprotettiva, in cui si ritrova la dimensione androgina, panica, saturnina della grande maschera napoletana.

IL VIAGGIO DEI COMMEDIANTI

Il viaggio è stato un percorso di iniziazione attraverso la fame, la miseria, la malattia, in un paesaggio spoglio, autunnale, disertificato. Nell’atmosfera plumbea, malinconica, cimiteriale non c’è posto per l’utopia di Il mondo nuovo, ma a tratti si accende la vivacità creativa dell’illusione, lo scintillìo pirotecnico della rappresentazione, l’esplosione dei colori, in cui l’antico gioco delle maschere ripropone il senso profondo della vita, il tempo finalmente ritrovato dei rapporti tra gli uomini. Se il viaggio della compagnia dei commedianti è metaforicamente il viaggio del cinema italiano dalle conquiste del passato recente al difficile snodo dell’inizio anni novanta, il film di Ettore Scola è anche un atto di fiducia nel cinema, nelle sue possibilità di rappresentazione di un mezzo espressivo ancora vitale, nelle sue capacità di salvaguardare la memoria di tutti e di ognuno, continuando a dialogare con il tempo e con la storia.

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