«Foggia, la rinascita deve partire dalla cultura. Mai più passi indietro». Sergio Rubini incanta all’Accademia di Belle Arti

by Claudio Botta

Doveva parlare de ‘Lo spazio cinematografico’ Sergio Rubini, di nuovo a Foggia -dove ha girato da protagonista un film diretto da Giovanni Albanese (A.A.A. Achille) ed è stato presidente della giuria del Film Festival diretto dal suo amico Pino Bruno- come guest star dell’inaugurazione del nuovo anno accademico dell’Accademia di Belle Arti. E’ andato generosamente molto oltre con i numerosi presenti nell’aula magna troppo piccola per l’occasione, raccontando il suo ruolo di pioniere nella scoperta di una Puglia che al cinema non esisteva, se non come sfondo macchiettistico nel linguaggio di attori di commedie minori anni Settanta. Non esisteva nella musica (duemila gli spettatori nella prima Notte della Taranta cui ha partecipato). Nel turismo era conosciuta solo per il Gargano. L’ ostinazione sua -nato a Grumo Appula- e di Domenico Procacci -giovane produttore, barese di Santo Spirito- nel voler tradurre in film la pièce di Umberto Marino che rappresentava con crescente successo in teatro da due anni, e di girare vicino ai luoghi in cui quei ricordi così malinconici e struggenti erano nati. Un piccolo finanziamento accordato da un lungimirante assessore della Regione (la primavera pugliese sarebbe arrivata quindici anni più tardi, con la clamorosa elezione di Nichi Vendola a Governatore) è stato ripagato nel tempo in modo esponenziale, e La stazione (uscito nel 1990) è diventato così il biglietto da visita di una terra che ha avuto poi nell’Apulia Film Commission il suo strumento di promozione più efficace, e che è diventata ormai un brand conosciuto in tutto il mondo.

Girato nella stazione dismessa di San Marco in Lamis, “dove mancava la luce elettrica, era illuminata da lampade a petrolio, e abbiamo dovuto portare noi la corrente perché la rappresentazione di un certo mondo sarebbe sembrata per gli spettatori troppo forzata” ha spiegato. Un luogo simbolo di riscatto e di nuovo inizio diventato, il 9 agosto 2017, simbolo di ben altro: lo sfondo di una strage, un commando che uccide crivellandoli di colpi il boss Mario Luciano Romito e suo cognato, Matteo De Palma, e due testimoni colpevoli solo di trovarsi lì, gli agricoltori Luigi e Aurelio Luciani, l’Italia e il mondo scoprono la ferocia della ‘quarta mafia’ che è dilagata nella provincia di Foggia. “E’ stato un grosso passo indietro quel terribile episodio, non dovrà più avvenire, non bisogna permetterlo e accettarlo” le sue parole. Così la sua speranza, il suo augurio per il presente si traduce in “rinascita”. Come? “Per affacciarsi al mondo dobbiamo raccontare quello che siamo e ciò che vorremmo essere, contraddizioni comprese, un piede nel futuro e un piede molto ben affondato nel passato. Il Sud è un luogo selvaggio, è quella la sua forza che si può trasformare in Prodotto Interno Lordo: se vogliamo essere migliori, protagonisti e non comprimari, dobbiamo avere la forza di raccontarlo così com’è. Non c’è nulla di più internazionale di ciò che è provinciale” ha continuato Rubini, la citazione finale è di Theo Angelopoulos, grande regista e sceneggiatore greco.

Lo spazio cinematografico -tornando al tema originario – è virtuale per antonomasia, “il cinema si serve di bugie per conoscere e far conoscere meglio la verità”. Divulgare quindi gli spazi, i territori, serve a divulgare noi stessi. Spazio poi a una grande preoccupazione, “l’algoritmo” e alla protesta che per mesi ha paralizzato il cinema americano, ma che in Europa non è stata compresa come avrebbe meritato. “Siamo uomini del passato che vivono già nel futuro, chiamati ad andare di pari passo con i mercati e la tecnologia: tuttavia l’uomo deve venire prima dei mercati, dobbiamo batterci per un nuovo umanesimo, altrimenti siamo destinati ad essere solo dei compratori, non dei cittadini” ha spiegato. “La tecnologia si affaccia sempre come una possibilità: internet a metà degli anni Novanta era il luogo del socialismo reale, offriva infinite possibilità e opportunità. L’Intelligenza Artificiale non è un buon amico, è un amico che ha come fine ultimo quello di vendervi qualcosa, di orientare gusti e scelte, e questo è molto pericoloso. Non si tratta di avere paura di perdere il proprio lavoro: una storia raccontata attraverso l’AI è una narcosi, un’opera d’arte invece deve sempre implicare una dialettica, uno scambio con lo spettatore. Ci devono essere gli autori, guai se dovessero scomparire” la sua analisi stimolante di adolescente cresciuto negli anni Settanta che come tanti sperava di “cambiare le regole del gioco”, il futuro ereditato dai propri padri pieno di “promesse” e non “un buco nero lasciato ai nostri figli”.

Una lezione magistrale, per citare l’aulico linguaggio di accademie come questa, piene di adolescenti che vivono -come tutti, nessuno si senta escluso- “sempre con una macchina accanto, il telefonino, che ci influenza tantissimo ma noi non influenziamo lui: così rischiamo di disumanizzarci”. Pensiero finale -sollecitato da una domanda arrivata dalla platea- riservato alla critica cinematografica: “E’ importante, così come erano importanti i dibattiti stimolati da un’opera d’arte, ma sta lentamente scomparendo, sostituita da poche righe relegate in fondo a una pagina; pensieri articolati vengono sostituiti da stellette. Al punto che diventa preferibile un articolo di costume a una recensione, perché un giornalista di ‘colore’ riserva più spazio di un critico”. E basta sfogliare qualsiasi rivista e giornale per constatarlo.

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