Giallo italiano d’autore

by Orio Caldiron

«La detection è una forma di esperienza. La vita, senza esplorazione, è vegetativa. Anche gli animali investigano continuamente il loro ambiente, lo fiutano, ne prendono le misure. Del resto, cosa non è investigazione? La storiografia, l’archeologia, l’antropologia, la scienza lo sono. Cos’è Freud se non un Dupin del sesso? Siamo tutti Dupin o Sherlock Holmes e la nostra conoscenza procede a tentoni indizio dopo indizio».

Questo clamoroso elogio dell’indagine non è la dichiarazione programmatica di un giallista della carta stampata, ma la sorprendente affermazione di un maestro del cinema italiano come Elio Petri. Quarant’anni fa, il 6 febbraio 1970, esce il dissacrante Indagine sui un cittadino al di sopra di ogni sospetto, destinato a ottenere di lì a pochi mesi l’Oscar per il miglior film straniero. Ma non c’è alcuna esagerazione nel ricordare che più gradito e congeniale è stato il Premio Edgar Allan Poe per la migliore sceneggiatura mystery attribuito allo stesso film dai giallisti americani, con cui, grande consumatore di letteratura poliziesca, il regista romano viene inaspettatamente riconosciuto come uno di loro dagli autori che aveva sempre amato.

L’AFFERMAZIONE DI MASSA DEL GIALLO

Il decennio degli anni sessanta segna l’affermazione di massa del giallo, la generalizzazione del paradigma indiziario che è a monte dell’intero genere e insieme la banalizzazione dei suoi tipici moduli narrativi. Sospesi tra i sopralluoghi incerti ma germinativi dei cinquanta e l’esplosione poliziottesca dei settanta, i sessanta italiani sono gli anni del superamento della pregiudiziale. Si consumano le ultime diffidenze nei confronti di un genere fino a poco tempo prima tenuto a distanza dal cinema d’autore, aristocraticamente preoccupato di non mescolarsi con i generi popolari. Si moltiplicano le conversioni degli autori che non esitano a servirsi spregiudicatamente dei moduli della narrativa poliziesca all’interno delle loro opere quando non passano armi e bagagli al giallo o al nero.

Il giallo vince? Il giallo vince e perde. Sì, perché la sua trionfante onnipresenza al cinema, nei fumetti, in televisione, non solo non attenua la forbice tra cinema d’autore e cinema di genere, arte e confezione, pratiche alte e pratiche basse, ma sembra in qualche misura esasperarla sottolineando le contrapposizioni e le incomunicabilità.

DA ROSI A ARGENTO

Quando Francesco Rosi (Salvatore Giuliano, 1961) e Michelangelo Antonioni (Blow up, 1967) lavorano direttamente sulla detection, sul percorso narrativo dell’indagine, si misurano con un modello epistemologico che è alla base della narrativa poliziesca, incentrata sulla dialettica tra verità e apparenza. Bernardo Bertolucci (Il conformista, 1970) studia da vicino l’istituzione-polizia, mette in scena la messinscena poliziesca, i suoi meccanismi, i suoi riti. Ma il genere continua a essere altrove, si viene definendo con la fertile attività di Mario Bava ( da Sei donne per l’assassino, 1964 a Diabolik 1968), di Umberto Lenzi (Cosi dolce…cosi perversa, 1969) di Lucio Fulci (Una sull’altra, 1969), di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, 1969). Non serve riscoprire ancora una volta le straordinarie qualità compositive del cinema di Bava, né la sua capacità di iscriversi nel territorio di formazione del giallo italiano a cui sembra suggerire una sorta di scenografia audiovisiva del segno dell’artificio. Come non serve ribadire la forza di rottura con cui sin dal suo esordio Argento – con Fulci, protagonista del decennio successivo – traumatizza il genere prima di risolverlo nell’horror.

DA QUESTI A VICARIO

Il cinema degli autori riconosciuti e quello dei generi misconosciuti sono due universi contrapposti e inconciliabili, a cui corrispondono milizie critiche e schieramenti politico-culturali ormai consolidati e irreversibili. Se pensiamo ai registi che scavalcano la contrapposizione, non possiamo trascurare Giulio Questi (La morte ha fatto l’uovo, 1968) che destabilizza dall’interno le convenzioni del racconto, sottoponendole allo choc di una autorialità delirante e visionaria. Non vanno dimenticati neppure i tentativi di spiazzare la penalizzante seriosità dell’epoca ricorrendo alle armi affilate dell’ironia, della parodia, del pastiche. Sono molti a provarci – da Duccio Tessari (Kiss kiss…bang bang, 1966) a Michele Lupo (Troppo per vivere, poco per morire, 1967) – pochi a riuscirci come Marco Vicario (Sette uomini d’oro, 1965) che, sbeffeggiando il tema ricorrente del colpo grosso scientificamente predisposto in ogni suo aspetto con tutto un arsenale di strampalate diavolerie tecnologiche, mette a punto un remunerativo archetipo, uno di quei film che sembrano facili da imitare e invece non lo sono per niente. Almeno uno bisogna mettercelo, almeno un luccicante lingotto d’oro ci vuole nel regesto in giallo e in nero dell’Italia del boom. Certo, assieme allo scenario ormai canonico della città, palcoscenico degli incubi e delle violenze metropolitane da consegnare al poliziottesco degli anni settanta che ne farà una sorta di rutilante videogame.

L’identikit dell’assassino va dal tipico serial killer, con tanto di coazione a ripetere, ai banditi incappucciati di via Montenapoleone, passando attraverso l’impermeabile svolazzante sulle alture di Montelepre. La vittima è una donna bellissima inguantata di nero, strangolata in una esibizione di superiore abilità manuale o, pugnalata in un profluvio di effetti da macelleria splatter. L’ostentazione voyeristica, lo scandalo visivo fa tutt’uno con il clic implacabile del fotografo non ancora inghiottito dalla camera oscura, risucchiato dall’ossessione dell’ingrandimento. Chissà, forse basta rivedere Blow up o Diabolik o magari tutte e due, per fare l’inventario dell’immaginario d’epoca, delle mutazioni di una iconosfera datata e attuale, divertente e insopportabile, futile e seriosa, pop e kitsch, in cui tutto è cosi vero e insieme cosi falso, smaltato come una superficie laccata, artificiale come un manufatto, iperrealistico come un fumetto ridisegnato da Roy Lichtenstein o una fotografia moltiplicata da Andy Warhol.

DA LATTUADA A DAMIANI

La contrapposizione è anche un territorio di frontiera. La tentazione di attraversarla può venire da entrambe le parti, in un polverone di sconfinamenti, cecchini e frontalier. Luigi Comenicini e Alberto Lattuada, nonostante l’apparente estraneità al genere, moltiplicano gli incontri, con curiose sintonie e divaricazioni. Entrambi, con Il commissario (1962) e Mafioso (1962) incentrati su Alberto Sordi, lavorano sul corpo comico del grande mattatore nel tentativo di far coincidere giallo e commedia, di arrivare al giallo attraverso le ambiguità e gli strabismi della commedia. Se Il commissario resta un’occasione mancata, Il mafioso è una sorta di anti-commedia, di svelamento-capovolgimento della commedia (all’italiana). Mentre Comencini colpisce nel segno con Senza sapere niente di lei (1969), un intenso ritratto femminile che coagula l’analisi di costume in mystery, Lattuada rincorre con Fraülein Doktor (1969), una curiosa retrodatazione colta della spy-story. Si muovono su posizioni decisamente più partecipi Carlo Lizzani (Banditi a Milano, 1968) e Damiano Damiani (Il giorno della civetta, 1968), autori certamente non omologabili ma in qualche modo contigui nella solidità della loro tenuta professionale, nella efficace disinvoltura con cui si sono venuti misurando con le caratteristiche istituzionali del cinema-spettacolo. Occorre appena ricordare che i risultati sono spesso di rilievo, confermati da un grande successo di pubblico, com’è il caso di Banditi a Milano e Il giorno della civetta, tra i titoli più caratteristici e riconoscibili dell’intero decennio. Se per Florestano Vancini (La banda Casaroli, 1962) l’incontro con il genere non modifica il suo percorso d’autore, più complesso è il caso di Giuliano Montaldo che, dopo un ritratto al vetriolo del neocapitalismo montante di ambientazione tutta nazionale (Una bella grinta, 1965), non esita a congedarsi dal cinema d’autore per firmare due impeccabili gangster-movie, in cui è esplicita la forza impressiva del cinema americano (Ad ogni costo, 1967, e Gli intoccabili, 1968).

LA STAGIONE DEL BONDISMO

Sarebbe del resto impossibile negare che in tutto il periodo il cinema americano sia il punto di riferimento più o meno consapevole, il modello drammaturgico e imprenditoriale di una cinematografia che ha sempre fatto i conti con i generi e lo spettacolo, riuscendo al tempo stesso a sintonizzarsi con il tessuto sociale e comportamentistico di un paese pronto a riconoscersi nell’immaginario di celluloide. Si tratta di una lunga sedimentazione, che agisce in modo diverso nelle diverse generazioni e nei diversi registi, intrecciandosi con altre componenti formative, dalla lezione del neorealismo a quella del fotoromanzo.

Negli anni sessanta la forza del modello non sembra aver perso in nulla la sua capacità di penetrazione, ma si è venuta stemperando in uno scenario plurale in cui non ha più il ruolo esclusivo e totalizzante che aveva avuto per decenni. Non si può dimenticare che è l’epoca del “bondismo” trionfante, dello strepitoso successo dell’agente segreto con licenza di uccidere (e di amare), che rimbalza di imitazione in imitazione in una serie pressoché infinita di film improbabili e approssimativi di infimo livello. Non diversamente avviene in edicola con l’uscita a pioggia dei fumetti neri, in una ossessiva e standardizzata ripetizione di formule e stilemi che veniva forzando i codici culturali pre-contestazione. Sarebbe tuttavia un errore sottovalutare il ruolo che ha avuto da un lato la fioritura di spy-story d’imitazione e dall’altro il successo dei fumetti neri. Sia i film di spionaggio che i fumetti neri contribuiscono a sprovincializzare la scena italiana imponendo la forza delirante, esagerata, ossessiva, dell’immaginario. Non si allude tanto alla trasgressione sessuale che pur ha il suo peso, ma a un più ampio allargamento di confini, allo sdoganamento dell’altrove. La spy-story internazionalizza la città, moltiplica gli scenari urbani, familiarizza il pubblico italiano con Londra, New York, Los Angeles, Hong-Kong, ma allo stesso tempo introduce la dimensione del futuribile tecnologico, della possibilità dell’impossibile. Il fumetto nero supera gli spazi angusti in cui si muove con l’improbabilità delle imprese criminali, la moltiplicazione delle performance sessuali, la ripetitività degli eccessi visivi.

IL RUOLO DI ELIO PETRI

Se ritorniamo a Elio Petri, è innegabile che si stagli in tutto l’arco dei sessanta come l’autore che più degli altri ha saputo coerentemente intuire, le potenzialità del giallo italiano. Sin dall’esordio con L’assassino (1961) mette in scena gli ingredienti canonici dell’indagine, la polizia e la città, la vittima e l’assassino, l’innocente e il colpevole. A ciascuno il suo (1967), ispirato all’omonimo romanzo di Sciascia, racconta la claustrofobia del feudo, svela l’intreccio di sesso e denaro, che sta dietro il mistero italiano, un mistero senza soluzione. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto ripropone il rapporto paradigmatico tra la detection e il delitto, va a fondo del meccanismo poliziesco come meccanismo del potere, consegnandoci l’indimenticabile, lucidissima, radiografia di una allucinazione, di una singolare discesa agli inferi, in cui si scontrano tabù e trasgressione. Cinema straniato, metallico, luminescente, il cinema di Petri sembra metabolizzare il modello dell’inchiesta di ascendenza neorealista in una rappresentazione fortemente ibridata, in cui le sottolineature espressioniste, le impennate grottesche, le pulsioni oniriche sfondano il tracciato narrativo fino a coagularsi nella forza dirompente della metafora. Nessuno ha saputo come lui prefigurare l’attuale fortuna del giallo italiano al cinema e in libreria. La convinzione che il poliziesco faccia tutt’uno con l’attitudine a raccontare la realtà del paese, sia l’osservatorio privilegiato in grado di penetrare nelle contraddizioni nazionali, lo strumento più acuminato per arrivare al cuore nero della società, viene dal suo cinema.

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