Il maestro di Vigevano e la scuola di oltre cinquant’anni fa cosa possono ancora dirci?

by Orio Caldiron

Si parla tanto della scuola anche in questi giorni, anche quando cambia il governo e, chissà, si riaccende la speranza che i cambiamenti non vadano verso il peggio. Si potrà imparare qualcosa anche da un vecchio film di oltre cinquant’anni fa? Forse. Il maestro sta per spiegare in modo libresco la scoperta dell’America. Il direttore, appena entrato in classe, manda tutto all’aria e trasforma la scolaresca nella ciurma delle tre caravelle e assegna al maestro il compito di avvistare la terra con una specie di cannocchiale.

La scena di Il maestro di Vigevano (1963) di Elio Petri – e prima del romanzo omonimo di Lucio Mastronardi, pur con qualche differenza – coglie in modo particolarmente vivace il cambiamento in corso nella scuola, segna la svolta tra i metodi tradizionali d’insegnamento di prima e quelli moderni, attivi, partecipativi di dopo. Stralunato e grottesco, il film prefigura solo in parte il clima apocalittico di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e di La classe operaia va in paradiso (1971), ma descrive nei modi corrosivi della commedia amara la claustrofobia dell’istituzione scolastica coi i suoi rituali frusti e asfittici, refrattaria al nuovo come i tanti insegnanti ripiegati su se stessi e sulla propria mediocrità. La vera prima grande novità di quei primi anni sessanta è la nascita della scuola media unica, la scuola dell’obbligo estesa fino ai quattordici anni, che cancella per sempre la vergogna degli istituti di avviamento professionale, una specie di penosi sottoscala che non portavano da nessuna parte con la scusa di immettere subito nel mondo del lavoro chi non poteva continuare gli studi.

Nonostante i suoi vistosi limiti – mancanza di vero aggiornamento degli insegnanti, carenza cronica di strutture adeguate, programmi pericolosamente sospesi tra vecchio e nuovo, ossessive circolari scritte in burocratese al limite del nonsense – la scuola dell’obbligo nata nel 1962 apre nuovi, insperati orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e del proletariato.. Non pochi di loro decideranno di continuare gli studi fino all’università, contribuendo a sconvolgere un sistema scolastico già sgangherato e poco funzionante. Le università più grandi, attrezzate per accogliere circa cinquemila studenti, ne ospitavano già cinquanta, sessantamila. Non appena si decide di liberalizzare l’accesso alle varie facoltà agli studenti provenienti da tutte le scuole superiori, compresi gli istituti tecnici, l’intero sistema va in tilt.

La storia successiva non riguarda più la scuola media, né la scuola elementare che è al centro di Il maestro di Vigevano. Riguarda l’università, il movimento degli studenti e soprattutto il Sessantotto: tutti temi complessi che non è ora il caso di affrontare. Il cuore del problema rimanda all’autoritarismo, anzi al radicale anti-autoritarismo del movimento studentesco. Che un film del ’63 abbia intuito cosa stava per succedere, non è un merito da poco. Come è interessante che nel corso del film affiori tutto uno scenario di rapporti tra scuola, famiglia, economia, in cui il vento del nord si imbatte nelle contraddizioni delle complessità. Sparare sulle esili spalle del maestro Mombelli un carico da novanta del genere mi sembra ingiusto, come sarebbe sbagliato chiedergli di impersonare la figura tipica del docente novecentesco. Chissà, il maestro, che ha lo sguardo sornione e vittimista del miglior Alberto Sordi, forse ha fatto propria la scritta che appariva all’epoca sui muri di una università: «Voglio essere orfano».

Com’è del resto l’insegnante-tipo dell’ultimo scorcio del passato millennio? Se ne può abbozzare un ritrattino? La prima tentazione potrebbe essere quella di recuperare i tanti amarcord degli insegnanti che abbiamo avuto nelle varie tappe della nostra storia scolastica – dalle elementari all’università – per proporvi una sorta di coperta di Arlecchino imbastita nel filo trasparente dei fatti personali. Troppo personali per esibirli qui in una peregrina moltiplicazione dell’irripetibile Posto delle fragole. Verrebbe fuori di tutto. Anche l’amore. Anche l’odio. Anche la saccente sicumera di chi pretendeva inopinatamente di sbirciare nella palla di cristallo del nostro futuro. Ma anche la gratitudine per le tante cose che abbiamo imparato. Soprattutto per le lezioni di vita, forse le più importanti anche se sul momento potevano sembrare le più detestabili. Quando Brecht diceva qualcosa di simile pensava soprattutto a quello che si impara stando in castigo dietro alla lavagna.

È arrivato il momento di ribadire l’energia dell’errore. La prova del nove del buon insegnante è la sua capacità di sbagliare. Nella trasmissione del sapere e nei comportamenti interpersonali. È allora che, fragile come i suoi allievi, finalmente umano, è in grado di scendere dalla cattedra e di insegnare sul serio. Forse per questo il maestro di Vigevano, che sbaglia quasi tutto in classe e in famiglia, assurge ai vertici, esagerati e parossistici, dell’esempio. Inimitabile.

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