La lezione di Pedro Almodovar

by Giuseppe Procino

Il leone d’oro alla carriera per Pedro Almodovar arriva poche settimane prima del suo settantesimo compleanno e a distanza di vent’anni dal suo primo oscar per “Tutto su mia madre”. È stato il film della consacrazione, da molti considerato il suo capolavoro, una pellicola in cui convergono e convivono in elegantissimo equilibrio tutti gli elementi del suo cinema.

È il film che conferma con prepotenza l’esistenza di una precisa politica autoriale che ha sempre avuto qualcosa da raccontare.  Il cinema di Almodovar è un cinema riconoscibilissimo, fatto di elementi ricorrenti: storie sui generis, volgarità, personaggi alla ricerca del loro posto nel mondo e che inseguono la propria indipendenza imparando a camminare sulle proprie gambe. Sin dal principio le storie al limite del regista spagnolo si snodano attorno ai margini della società Madrilena, slegandosi dalle catene che la dittatura franchista aveva imposto. Un cinema frainteso e fraintendibile, in cui emergono come retorica il perdono e la comprensione, ma mai fastidiosamente didascalico.

Almodovar è un genio della narrazione, un dissacratore sensibile e attento agli ultimi, agli incompresi, su tutti le figure femminili, vittime di una società machista e che nel suo cinema diventano eroine, alzano la testa e reagiscono. Almodovar, prima di essere un regista Queer, è il cineasta delle donne, sono loro spesso le vere protagoniste delle sue pellicole. Penélope Cruz, Marisa Paredes, Cecilia Roth, Rossy de Palma e Victoria Abril sono le muse del regista.

Il suo primo lungometraggio ufficiale “Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio”, con Carmen Maura e girato con pochissimi soldi in 16 mm, è un patchwork kitsch liberatorio, un inno all’autodeterminazione, in cui tre personaggi femminili presi in prestito da un’iconografia da fumetto underground (una punk, una masochista, una ragazza in cerca di vendetta contro l’uomo che le ha letteralmente rubato la verginità), si muovono tra situazioni surreali e feste punk queer in cui si svolgono improbabili concorsi sulla lunghezza del pene (erezioni generali). Sono tre donne alla ricerca della propria felicità, unite da un forte senso del rispetto e un ripudio della coercizione, pronte a tutto per difendere chi è in difficoltà, in altre parole la quinta essenza del girl power.  

La pellicola è il frutto di dieci anni nell’ombra, fingendo di essere dalla parte dei “normali” (durante la dittatura gli omosessuali erano rinchiusi in campi di rieducazione) con un lavoro ordinario (una compagnia telefonica), in cui la frustrazione ha innescato una bomba pronta a esplodere. È qui che iniziano a delinearsi sin da subito i tratti distintivi della sua filigrana stilistica.

È un cinema colorato, eccentrico, a tratti eccessivo, con un’attenzione particolare verso gli ultimi, i freak, ma quelli urbani, quelli che la società etichetta come gli strani, gli altri, quelli che il perbenismo e la religione pongono ai margini della società. La sensibilità verso narrazioni altre, melodrammi a tinte grottesche, con incursioni in altri generi, ha fatto sì che oggi a quasi settanta anni Almodovar possa essere annoverato tra i grandi autori della settima arte.

Il cinema del regista spagnolo nasce quindi da un’urgenza espressiva, dalla necessità di affermare qui e ora un sottobosco della Movida Madrilena, estremizzata ma reale. È la spinta liberatoria della caduta della dittatura il vero punto di partenza per una cinematografia che deve gridare a ogni costo le sue rivendicazioni e che sceglie l’ombretto, le paillettes e le piume di struzzo come arma di difesa.

Un punto di incontro tra John Waters e il Rocky Horror Pictures Show, condito con una forte ispirazione per il cinema dei nuovi autori che hanno conquistato l’Europa, primo fra tutti Fassbinder.

Il cinema di Almodovar è un urlo catartico ma anche un’esaltazione dei sentimenti che uniscono o dividono, primo fra tutti la passione. È l’amore che fa sognare la psicologa Susana e battere il cuore a Sexilla in “Labirinto di Passioni”, è l’amore che manda in crisi Leo ne “Il fiore del mio segreto” e anche il suo raccontare i weird, gli strambi, non è mai un tentativo compassionevole di cercare la facile commozione del pubblico ma la constatazione di un dato di fatto, un atto d’amore. La vita per Pedro Almodovar è, nel bene o nel male, bellissima perché possiamo sempre scegliere, cambiare tutto. Il mondo è bello perché è vario e quello che non ci sforziamo di capire resta un limite per la comprensione di determinati processi sociali.

Così come le sorelle delle “Redentrici umiliate “ ne “L’indiscreto fascino del peccato”, umane e fragili e volontariamente peccatrici. Comprendere per non escludere. In molti ci hanno visto una critica alla chiesa e alla società spagnola, colpevole di mantenere profondi retaggi cattolici ereditati dal regime franchista, ma in verità, le sorelle dell’ordine sono personaggi irresistibili.

La prima fase del regista spagnolo è un’esplosione di situazioni surreali, coloratissime, una continua narrazione grottesca in cui s’intravedono le tinte da melodramma che saranno perfezionate con i film successivi. In questo primo momento il regista sviluppa quella che Vicente Moina Foix definirà come una “deliberata insistenza del brutto fine a se stesso” e che persisterà in parte nel suo film del 1986 “Matador”, un primo tentativo d’interpretazione del genere thriller. Qui però aumenta il budget e la narrazione non deve più soccombere ai limiti tecnici. Almodovar è visto con sospetto dalla critica alta e massacrato dalla censura che lo etichetta come volgare ed estremo.

L’anno della svolta è il 1988. Inizia a divenire più spesso il fil rouge melodrammatico che diverrà sempre più visibile. Il melodramma per Almodovar è lo stratagemma per disegnare i personaggi con una vivida delicatezza, per lo più ancora una volta femminili. È un mondo microcosmo in cui la vita scorre e ti incanta nel suo essere unica. Esiste la diversità che passa per il genere, lo stile di vita, il proprio vissuto personale, è lì che vivono i personaggi del cinema di Almodovar e sono personaggi che rendono la società più variegata. Ogni personaggio ha una storia definita ed eccentrica, d’altronde nessuna vita è uguale a quella di qualcun altro.

 “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” è un film dichiaratamente al femminile. C’è il meglio del regista fino a quel momento, dosato con garbo, condito con ironia e un pizzico di trash. La formula diviene più morbida e appetibile, si iniziano a prendere le distanze dall’azione estrema dei suoi primi lavori. La dittatura è ormai lontana, Pedro è cresciuto, è cambiato ma non ha dimenticato chi era. “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” è, come lo definisce lo stesso Almodovar, “Una commedia sofisticata, molto sentimentale- in cui- Qualunque stramberia appare verosimile se implica dei sentimenti. L’emozione sentimentale è sempre il miglior veicolo per raccontare qualunque storia”.

È un Almodovar allegramente nevrotico che smussa gli angoli della sua opera e definisce il proprio stile inventando, di fatto, un genere. Se fino a quel momento gli agenti sconsigliavano alle attrici di lavorare con il regista spagnolo, adesso fanno a gara per superare i casting.

Il punto di partenza è “La voce umana” di Jean Cocteau, poi la narrazione vira verso toni più estemporanei. Nel ruolo di Pepa, doppiatrice che viene scaricata dal suo compagno attraverso un messaggio in segreteria telefonica, Carmen Maura al fianco del regista sin da “Folle… folle… fólleme Tim!” suo primo e introvabile esperimento con il lungometraggio. Accanto a lei, Antonio Banderas, ospite quasi fisso delle pellicole di Almodovar dal suo secondo lungometraggio “labirinto di passioni” del 1982. La trama scorre tra equivoci, situazioni comiche e Carmen Maura è meravigliosa.

Il film ha una forte impronta teatrale, con una scrittura solida e istrionica. La fotografia è affidata a José Luis Alcaine, maestro pluripremiato del cinema spagnolo, che rende più definito l’immaginario coloratissimo e caldo dell’autore. Da questo momento in poi, la fotografia del cinema di Pedro Almodovar diviene un elemento caratteristico che ne identifica la firma. “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” vince da subito premi ovunque tanto da portare il regista alla sua prima candidatura agli oscar.

Con il film seguente “Legami” il regista torna al racconto estremo ma questa volta con uno spirito differente. È una commedia romantica divertente e delicatissima, ambientata in una Madrid inedita tra spacciatrici, tossicodipendenti e il set di un film porno. La storia del disagiato appena uscito da una casa di cura Ricky (Antonio Banderas protagonista assoluto) che rapisce la pornostar Marina (Victoria Abril) di cui è innamorato frutta al regista quindici candidature ai premi Goya e la candidatura all’Orso d’Oro al festival di Berlino. È l’ultimo film spagnolo di Antonio Banderas prima del grande debutto Hollywoodiano.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.