Liliana Cavani, la metafora, il simbolo, il sogno

by Orio Caldiron

Se si mettono in fila i numerosi interventi della censura, le interpellanze parlamentari, la mancata circolazione di questo o di quel film, non c’è dubbio che, nel corso della sua attività, qualcuno a torto o a ragione ha avuto paura della sua carica polemica e della sua audacia sessuale, contribuendo a delineare quell’immagine fra trasgressione e sensazionalismo che sa di zolfo a cui fanno pensare non poche reazioni d’epoca, in un mix alla Frankenstein che ha il volto stravolto di Lou Castel, il seno nudo tra le bretelle di Charlotte Rampling, i ménages à trois da Nietzsche a Tanizaki, la sirena bollita alla tavola del generale Cork.

In realtà il cinema di Liliana Cavani appartiene alla grande stagione italiana che, dopo la crisi del neorealismo, allarga lo sguardo per andare oltre la superficie immediata del visibile attraverso la metafora, il simbolo, il sogno. Mentre per la maggior parte dei protagonisti della nuova ondata il rapporto con la televisione avviene solo in un secondo momento, quando non gli resta assolutamente estraneo, per la regista di Carpi si tratta di un momento fondamentale della sua formazione di autrice di lucida intelligenza e di appassionata ricerca culturale.

PRIMA VIENE LA TV

Subito dopo l’università e il Centro Sperimentale di Cinematografia, nel clima fervido della nascita del secondo canale televisivo, tra il ’62 e il ’65 realizza per la Rai sei documentari da Storia del Terzo Reich a Età di Stalin, da La casa in Italia a Gesù mio fratello, da La donna nella Resistenza a Philippe Pétain. Processo a Vichy.

Girati in 16 e 35 mm, sono una sorta di full immersion nei temi cruciali della storia contemporanea, mai affrontati dalla televisione, che le permettono di scavare tra inediti materiali d’archivio, saggiando la singolare capacità evocativa che avrà modo di confermare nella sua carriera cinematografica.

Nelle centinaia di ore di cineattualità girate dall’esercito tedesco e nelle documentazioni delle cerimonie hitleriane viste in moviola per il programma tv sul Terzo Reich si ritrova l’ideale punto di partenza di Il portiere di notte, assieme all’inchiesta sulle donne della Resistenza italiana per la quale incontra due sopravvissute dei campi che le trasmettono l’inquietudine da cui anni dopo nascerà il film. La prima era stata internata tra i diciotto e i vent’anni e, dopo la guerra, ogni estate andava in vacanza a Dachau. Sopravvissuta a Auschwitz, la seconda non se l’era più sentita di tornare dal marito e dai figli perché si considerava un personaggio imbarazzante. Sì, vi aveva conosciuto la crudeltà e l’orrore, ma ciò che non gli poteva perdonare era che le avessero fatto conoscere l’ambiguità della natura umana.

FRANCESCO E GALILEO

Il debutto nel lungometraggio avviene con Francesco d’Assisi (1966) che, commissionato e trasmesso dalla Rai, avrà anche una circoscritta distribuzione d’essai. Si tratta di un esordio clamoroso in cui la regista evita la logica dello sceneggiato televisivo da studio per girare tutto dal vivo con la complicità della troupe come se fosse un fatto di cronaca. Ma il paradosso del film sta proprio qui.

Il procedimento apparentemente neorealista non intende cogliere la verosimiglianza degli avvenimenti esteriori né l’attendibilità storica del percorso biografico, ma punta sulla verità interiore del protagonista, sulla sua emblematica ribellione nei confronti delle strutture tradizionali della società. Nessuna concessione all’agiografia in un racconto scarno, essenziale, prosciugato fino alla nudità dei corpi, dei paesaggi, delle scenografie. Il film deve molto alla particolarissima fisicità di Lou Castel, ai suoi tratti sgradevoli ma ingenui, tra lucidità e sarcasmo, alle sue risate improvvise.

Se nella sua febbrile ansia di cambiamento Francesco d’Assisi sembra anticipare la contestazione giovanile, Galileo (1968) si richiama alle decisioni più promettenti del Concilio Vaticano II sui problemi della scienza. Il dramma dell’intellettuale in anticipo sui tempi, che tenta di confrontarsi con le gerarchie ecclesiastiche ma si deve arrendere di fronte all’intolleranza del potere, evita gli stereotipi del biopic per illuminare i momenti esemplari di un’avventura umana e scientifica che inaugura la modernità, nella convinzione che la storia è sempre storia contemporanea, coniugata al presente nel segno dell’attualità.

La Chiesa della Controriforma vi fa una pessima figura, ingessata nel sovraccarico di costumi e scenografie come nei verbalismi libreschi estranei al metodo sperimentale, mentre Galileo che compie le sue “sensate esperienze” in maniche di camicia è l’uomo del dialogo, colto senza retorica nelle ingenuità e nelle contraddizioni di chi si accorge di essersi impegnato in una battaglia impossibile. Senza considerarla per forza una metafora del cinema, è indimenticabile la sequenza del telescopio dentro il quale gli ecclesiastici non vogliono guardare, ne hanno persino paura come di qualcosa che potrebbe mettere in crisi le certezze tradizionali, mandando in pezzi la loro cultura e la loro vita.

Fin dall’inizio di I cannibali (1970), con le strade della moderna metropoli dove le persone passano indifferenti tra i cadaveri che le autorità proibiscono di seppellire, la forza dell’immagine assume toni visionari e allucinatori, stabilendo da subito lo statuto onirico di un film dove l’indignazione politica si esprime attraverso il mito in modo da trasmettere allo spettatore la vibrante inquietudine di chi si interroga sul futuro che è già cominciato.

Sulla base degli indelebili ricordi di bambina, quando nella piazza del suo paese vede sedici partigiani ammazzati all’alba che i repubblichini impediscono di rimuovere mentre le donne urlano disperate, l’autrice s’ispira all’Antigone di Sofocle per rappresentare con particolare veemenza le aberrazioni della società repressiva che minacciano l’occidente capitalistico senza indulgere alla piattezza inerte della cronaca, ma ricorrendo alle metafore e ai simboli, ai gesti più che alle parole.

La particolare sintonia della regista con un attore fuori dagli schemi come Pierre Clementi, lo straniero che viene dal mare, sembra riproporre l’identificazione tra Lou Castel e Francesco, ma qui per la prima volta è il personaggio femminile, l’Antigone di Britt Ekland, che acquista l’insolito rilievo della coprotagonista, anticipando la centralità della donna di L’ospite (1971). Nella figura di Anna, e nella ricerca prebasagliana tra normalità della follia e follia della normalità, si avverte il senso struggente delle vite perdute nelle istituzioni manicomiali, anche grazie alla intensa interpretazione di Lucia Bosé.

L’INCONTRO CON KIM ARCALLI

Attraverso il viaggio immaginario di uno studente di oggi interessato alla spiritualità orientale, Milarepa (1973) ricostruisce la vicenda di un contadino nepalese dell’undicesimo secolo alla ricerca di un maestro che lo avvii sulla strada della saggezza. Solo dopo aver superato i rischi distruttivi della magia nera e le suggestioni della magia bianca, comincerà a vivere il cammino verso il sapere come una immersione totale, in cui ci si lascia alle spalle la dicotomia tra mente e corpo tipica della cultura occidentale. Liberamente ispirato a Vita di Milarepa, un classico della letteratura tibetana, ripercorre attraverso il filtro dell’oggi il difficile cammino che porta all’illuminazione. La forte fisicità dell’esperienza non esclude aspetti crudeli e sadici prima di raggiungere quella che Pasolini, grande estimatore del film, chiama “la perfetta Geometria della visione religiosa, onnicomprensiva come lo sguardo del pittore cubista”.

Nell’attività creativa della regista, Milarepa segna l’incontro con Franco Kim Arcalli, l’inventivo montatore-sceneggiatore di Bertolucci, Antonioni e Questi, che collaborerà con lei fino a Al di là del bene e del male. Si deve anche alla sua estrosa abilità se i raccordi tra passato e presente, tra viaggio del giovane e iniziazione ascetica s’incontrano nel ritmo fluido e serrato del racconto visivo.

IL SUCCESSO DEL PORTIERE DI NOTTE

La consacrazione internazionale arriva con Il portiere di notte (1974), che ottiene un clamoroso successo di pubblico nel momento in cui, bersagliato dagli interventi censori, suscita infinite polemiche, coinvolgendo Michel Foucault, Serge Daney, Luchino Visconti, Alberto Moravia, Pauline Kael. Nella tragica rimpatriata tra l’ufficiale delle SS Max Aldorfer e l’ebrea Lucia Atherton, che si erano incontrati nell’orrore del lager, guarda in faccia senza mezze misure le pulsioni sadomaso dell’inconscio in un incandescente melodramma che coniuga abilmente le ambiguità della natura umana con i riti del sangue e del sesso, sullo sfondo degli abissi del secolo breve.

L’Hotel Zur Oper di Vienna, dove vittima e carnefice si ritrovano recuperando l’allucinata immagineria dei campi, anima la discesa agli inferi, al regno dell’ombra e della morte, a cui si contrappone l’inno alla vita della rappresentazione del Flauto magico. Nello stesso albergo complotta un gruppo di ex-nazisti, sospesi tra dissimulazione e nostalgia, quasi un rendez-vous di fantasmi che porrà fine tragicamente alla vicenda. Anche qui il complesso rapporto tra i vari piani del racconto deve molto all’abilità di Arcalli, come riconosce la stessa regista: “Kim riuscì a inserire tutti i flash-back, a renderli tutti indispensabili al racconto, creando la suspense laddove temevo la ripetitività. Gli è costato alcune migliaia di gauloise. E poiché fumavo anch’io eravamo in un perenne nebbia di fumo rischiarata soltanto dal piccolo schermo della moviola. Senza di lui il film non sarebbe stato così ben raccontato”.

Negli anni successivi lo “scandalo Cavani” prosegue con Al di là del bene e del male (1977) e Interno berlinese (1985), che formano con Il portiere di notte una sorta di trilogia tedesca. Sono due film molto diversi ma contrassegnati entrambi dall’eleganza formale, dalla sontuosa ricostruzione fine Ottocento del primo, che rievoca il breve incontro tra Friedrich Nietzsche, Lou Salomé e Paul Rée, e dall’algido scenario della Berlino hitleriana del ’38 del secondo, in cui Louise von Hollendorf, la giovane moglie di un diplomatico tedesco, è ossessionata da Mitsuko, la bellissima figlia dell’ambasciatore giapponese. La radicalità con cui i protagonisti si mettono alla prova, interrogandosi sul bisogno di rendere visibili le diversità e di riscoprire i propri limiti per superarli, conferma la maturità dell’autrice. Nel suo cinema le complesse figure femminili, coinvolte nei labirinti della storia, sembrano avere una marcia in più degli uomini.

LA PELLE DA MALAPARTE

Sottovalutato all’epoca da una parte della critica ma premiato al box-office, La pelle (1981) è un film di grande suggestione che sfronda abilmente il romanzo malapartiano – in cui il racconto si alterna al pamphlet polemico e al diario narcisistico dell’io narrante – per puntare sull’affresco della Napoli del ’43 liberata dagli americani della Quinta Armata, senza rinunciare agli aspetti scabrosi, dalle madri che per fame offrono i figli ai marocchini pedofili al pesce sirena che sembra una bambina, dal padre che fa pagare il biglietto per vedere la figlia, “la vergine di Napoli”, all’uomo schiacciato dal carro armato, ma sottolineando energicamente come la guerra abbruttisca vincitori e vinti e travolga gli uni e gli altri in un’oscena escalation.

Se Marcello Mastroianni è l’ufficiale di collegamento dallo sguardo impassibile ma attento, quasi una guida turistica che accompagna gli ospiti nella visita al museo degli orrori, il suo rapporto con l’aviatrice Deborah Wyatt (Alexandra King), che sorvola il teatro delle operazioni pretendendo di capire che cosa succede, è scandito – tra una gaffe e un’ammissione, una sconfitta e una rivincita – dal continuo confronto tra le atrocità dei liberatori e quelle dei liberati, una gara assurda in cui tutti perdono. Nello scenario vivacissimo delle situazioni più stravolte e chiassose che si accavallano tra di loro, l’impressione è che nessuno salvi la faccia e l’anima, mentre i soldati americani, come faceva anche Max nel lager, non smettono di fotografare e di filmare ogni momento della loro irresistibile avanzata. Il gusto dell’eccesso e la ridondanza dell’affabulazione contrassegnano l’iperrealismo di un film che non rinuncia mai a interrogarsi con acutezza sul ruolo dell’immagine e sul potere del cinema.

Subito dopo Francesco (1989), in cui l’interpretazione atletica di Mickey Rourke ha fatto parlare di una rivisitazione caravaggesca del ribelle di Assisi, Il gioco di Ripley (2002) è per ora l’ultimo approdo cinematografico prima del recente ritorno alla tv. Nel rileggere il romanzo di Patricia Highsmith, la regista si è divertita a mettere in scena l’imprevedibile rapporto tra il dandy-assassino Tom Ripley – un notevole, luciferino Malkovich – e lo scialbo corniciaio Jonathan Trevanny. L’universo claustrofobico e irrazionale della scrittrice americana, dove la suspense stinge nel brivido metafisico, sembra fatto su misura per lo sguardo crudele che fa lievitare l’ansia, l’apprensione, il disagio in agguato dietro le apparenze rassicuranti. Su tutto prevale l’ambiguità che mescola le carte fino a che la distinzione tra buoni e cattivi sembra un ingenuo gioco per ragazzi, mentre i cadaveri si moltiplicano senza perdere l’aura maledetta e inquietante.

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