Michael Curtiz, il nostro uomo a Casablanca

by Orio Caldiron

Sulla soglia degli anni ottanta è toccato a Rainer Werner Fassbinder, una delle voci più spregiudicate del nuovo cinema tedesco, richiamare l’attenzione sul singolare paradosso per cui l’autore di un cult movie celeberrimo è un regista pressoché sconosciuto al grande pubblico: “Tra tutti coloro che considerano il cinema, il film, come un’essenza amorosa, di tenerezza e di voluttà, non c’è quasi persona che ignori l’Humphrey Bogart di Casablanca con Ingrid Bergman. Sono convinto però che siano in pochi a sapere che Casablanca è stato girato da Michael Curtiz. E coloro che lo sanno, credono che a Curtiz questo capolavoro sia riuscito per caso. Opinione diffusa tra i cinefili, ma altrettanto errata e ingiusta. Michael Curtiz ha fatto anche di meglio”.

Sappiamo pochissimo di Mihály Kertész, alias Michael Curtiz, che nasce a Budapest il 24 dicembre 1888 e muore a Hollywood il 10 aprile 1962, primogenito di un’agiata famiglia ebrea. Il padre, architetto, ha una passione per il bel canto. La madre è una stella dell’opera, in cui giovanissimo fa le sue prime esperienze di attore. Sin dall’inizio del secolo entra a far parte di varie compagnie teatrali, ma presto passa al cinema di cui come regista intuisce le straordinarie potenzialità espressive. Nel 1919, quando lascia per sempre l’Ungheria, ha già fatto in tempo a partecipare alla prima guerra mondiale come cineoperatore e a realizzare trentotto film quasi interamente perduti. Non parlerà mai di Viene mio fratello, il corto di propaganda che realizza per la Repubblica dei Consigli di Béla Kuhn, con tanto di bandiere rosse al vento e di slogan rituali: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!”, in un momento in cui alla breve esperienza rivoluzionaria partecipano anche Béla Lugosi, il futuro Dracula, e Sándor Corda, destinato a diventare lo zar del cinema britannico. La successiva esperienza viennese è fondamentale per il regista che con la Sascha-Film del conte Alexander Kolowrat dirige  Sodoma e Gomorra, grandioso pasticcio biblico dalle ambizioni anticapitaliste, e il dramma in costume Il giovane Medardo dalla pièce di Arthur Schnitzler, ma è Schiava regina , fastosa rievocazione del ritorno degli ebrei nella terra promessa tratto dal libro di Henry Rider Haggard, richiama su di lui l’attenzione di Harry Warner, che nel 1926 lo chiama in America.

L’ambiguità è la musa di questo ungherese di Hollywood, un americano che è europeo, un professionista fedele per trent’anni alla stessa major e che non è affatto un esecutore anonimo, un regista di film di successo misconosciuto come autore, un uomo-cinema che ha avuto l’Oscar ma non la considerazione della critica. Nel corso di una lunghissima avventura che vede sfilare al timone di comando della Warner personalità diverse come Darryl F. Zanuck, Jack Warner, Al B. Wallis, Jerry Wald, le propensioni più segrete del regista si misurano con le regole dello studio system per cui far cinema “è come costruire un’automobile: si mettono insieme i pezzi e il gioco è fatto”. Se i dirigenti dello studio continueranno a rimproverargli le predilezioni eccessive, le composizioni eccentriche, la mania della gru, i complicati movimenti di macchina, è proprio nello scontro con le regole produttive che si verrà definendo la sua estetica della velocità, capace spesso di armonizzare dinamismo narrativo e invenzione visiva, politica della casa e confessione cifrata.

Il suo primo grande successo americano è L’arca di Noè (1928), che lo fa conoscere nel difficile momento di passaggio dal muto al sonoro. “Il film mostra il concepibile e l’inconcepibile”, scrive “Variety”, “folla, folla e ancora folla, un Niagara d’acqua, un disastro ferroviario, guerra a volontà, crolli, diluvi, e ogni cosa in grado di provocare brividi allo spettatore”. Il kolossal contribuisce a dar vita alla legenda del regista “crudele”, pronto a riversare cascate d’acqua sulle comparse. Nel giro di qualche anno è considerato dai produttori un “money maker”, cioè un regista capace di realizzare nel tempo stabilito e con il budget previsto dei film destinati a un successo praticamente sicuro. Sul piano umano il personaggio resta misterioso e sfuggente. La mondanità non gli interessa, ha pochi amici, non concede interviste, vive per lavorare e disprezza quelli che lavorano per vivere. Se si esclude la tenacia con cui difende la propria privacy, la sua eccezionale bravura di campione di scherma, il suo inglese sgangherato e fantasioso che fa ridere anche gli amici più indulgenti, la fama di despota cinico e arrogante che comanda a bacchetta tecnici e comparse, di lui si continua a sapere molto poco, mentre si consolida la fama del temibile stakanovista che sfianca tutti di lavoro e non esita a insultare i divi più capricciosi.

I SUCCESSI DEL CAPPA E SPADA

Negli anni trenta il genere in cui ottiene i maggiori successi è il cappa e spada. Capitan Blood (1935), La carica dei 600 (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), Il conte di Essex (1939), Lo sparviero del mare (1940), segnano anche l’incontro con Errol Flynn, spregiudicata incarnazione dell’eroe muscolare che esercita il suo fascino su Olivia de Havilland, la compagnia di tante imprese, ma anche sul pubblico femminile in sala. Nel cinema d’azione rivive lo statuto del romanzo d’avventure che nasce dal sogno infantile sempre alla ricerca del tesoro nascosto. Il cappa e spada coltiva l’illusione di una visualità da toccare con mano, si anima nella profondità della superficie, esclude ogni spessore psicologico. Non sono ammesse pause ne incertezze, dal conte fino all’ultimo pirata, ognuno deve fare la sua parte.

Non sono meno coinvolgenti i suoi polizieschi, di cui il più curioso è Il pugnale cinese (1933), che ripropone il Philo Vance di S.S. Van Dine, un classico del giallo americano, facendolo interpretare all’impeccabile William Powell. Il film risolve le contrapposizioni tipiche del cinema poliziesco tra teoria e pratica, dilettantismo del dandy e scientismo delle procedure, nell’indagine come set, crocicchio di entrate e uscite, agitato luogo di raccordo in cui l’omicidio rimbalza dai poliziotti ai giornalisti per diventare subito cronaca. Si sente ancora di più l’impatto con l’attualità in Gli angeli dalla faccia sporca (1938), uno dei suoi film più celebri in cui si avvertono gli schemi sociologici e le sottolineature finto documentaristiche dello stile Warner.

Il pugnale cinese (1933)

Nello specchio del mimetismo non si ritrovano solo i ragazzi di periferia che rifanno il verso a Rocky Sullivan (James Cagney), ma anche la stampa e la radio chiamati direttamente in causa in un film che mette in scena i mass media, i rapporti ambigui tra modelli di comportamento e mezzi di comunicazione. L’ultima sparatoria si svolge come in un set con i grandi riflettori che illuminano la scena, ricordandoci che l’evento criminale cresce insieme alla sua ricostruzione, è già la spettacolarizzazione di se stesso. Nel film ha un ruolo importante – quello di un losco avvocato, ex compagno di giochi di Sullivan – anche Humphrey Bogart, che era già apparso in L’uomo di bronzo (1937), vivace ricognizione nel mondo corrotto del pugilato, e dopo la consacrazione di Casablanca (1942) riapparirà in Il giuramento dei forzati (1944), melodramma dalle atmosfere fosche e incombenti ambientato negli anni di guerra, che è tra i suoi film più efficaci.

Humphrey Bogart, Ingrid Bergman e Michael Curtiz sul set di Casablanca

OMBRE ESPRESSIONISTE

Nell’ipertrofia degli spazi – che tende a cancellare le differenze tra il salotto borghese e la sala del trono, il quadrato del ring e la tolda della nave – si ritrovano l’enfasi del grande orchestratore di eventi, l’abilità manipolatoria del burattinaio, il teorico del delitto perfetto, altrettante metafore del padrone del set a cui più volte i suoi film direttamente o indirettamente rimandano. Il grande gioco dell’avventura e del mistero intreccia i propri percorsi con l’esperienza cinematografica che affonda le radici nella cultura mitteleuropea. La drammaturgia dell’ombra e la spazialità espressionista convivono con la vertigine dello sguardo dall’alto, che tende a superare la forza di gravità appropriandosi del mondo dal punto di vista di una visione superiore. Nell’accumulo maniacale degli indizi, nel sovrapporsi delle prove a carico, si delineano le forme rituali dell’illusionismo del regista che sembra intento a fare concorrenza alla realtà anche quando più esplicita è la forza dell’invenzione visiva. Il cinema della visualità onnivora e impaziente squaderna davanti ai nostri occhi la suggestiva efficacia di un universo artificiale ma vivacissimo.

Nel cinema naturalizzato americano di Michael Curtiz l’attraversamento dei generi narrativi, la stessa prodigiosa fecondità degli ottanta film in trentacinque anni sono incalzate dalle segrete strategie di una profonda incertezza in cui la crisi dell’eroe è solo la copertura di un enigma nell’enigma, dell’inquietudine devastante dell’io. L’eroe che intravede la fine del viaggio chiede una prova d’appello. La navigazione si è rivelata un lento processo di corrosione dall’interno che ha tutta l’aria di un congedo. Chi è l’eroe? Non siamo più sicuri di saperlo. Non è certo la femme fatale che Il romanzo di Mildred (1945) e L’ora scarlatta (1956) smontano pezzo per pezzo mostrando che sotto l’etichetta della dark lady si nasconde una donna “marcia, ordinaria e mediocre”, attratta soltanto dai soldi. Ma non c’è da credere che gli uomini se la passino meglio.

Il romanzo di Mildred

Non resta che fare una puntata a Casablanca in cui il mito rinasce su se stesso sotto l’unica forma oggi possibile dello stereotipo. La miscela del film – immortalato in migliaia di poster e di fotografie, citazioni e rifacimenti – è esplosiva per la spudorata capacità di riprendere e rielaborare un numero infinito di collaudatissimi cliché narrativi, una sorta di rimpatriata degli archetipi, in cui la storia individuale si intreccia con la storia collettiva. Se il mappamondo dell’inizio del film gira fino a inquadrare Parigi e poi Lisbona, centro dell’imbarco per l’America, i meno fortunati, tra un’incursione aerea e una visita alla Kommandatur, aspettano a Casablanca i visti per potersene andare. Su chi scommettere, su Humphey Bogart o su Paul Henreid, sull’equivoco proprietario del Rick’s Café Américain o su Victor Laszlo, uno dei capi della resistenza europea, sul rassicurante passato del flashback parigino o sul futuro ignoto e minaccioso? Ingrid Bergman ha più volte raccontato le difficoltà di una lavorazione in cui, mentre sceneggiatori e produttori non smettevano di litigare, i dialoghi venivano dati agli attori giorno per giorno, senza poter prevedere quale sarebbe stato il finale. “La cosa che metteva più a disagio”, ricorda Ingrid, “era il non sapere di chi dovevo essere innamorata, se di Paul Henreid o di Humphrey Bogart. Non osavo guardare Humphrey Bogart con sguardi innamorati perché poi non avrei saputo come guardare Paul Henreid”. Solo alla fine si capisce che il sacrificio di Rick a favore della resistenza contro il nazismo corrisponde alla fine della politica isolazionista americana e alla necessità dell’intervento statunitense nel secondo conflitto mondiale.

IL CANNONE E IL CUORE

Certo, le cose importanti restano, mentre il tempo passa. Un bacio è solo un bacio. È un colpo di cannone o è il mio cuore che batte? Nonostante il richiamo struggente di “As time goes by”, il rapporto tra pubblico e privato propende necessariamente per le esigenze del momento storico che risolve le difficoltà sentimentali del melodramma. L’eroe è chi accetta le regole o chi si ribella? Nel suo saggio sul regista citato all’inizio, Fassbinder suggerisce l’immagine dell’anarchico a Hollywood, dell’anarchico che agisce al di fuori delle regole costituite, che si scontra con il sistema in nome dei bisogni più autentici, dei propri segreti desideri, delle proprie pulsioni fantastiche. Forse è proprio lui, Michael Curtiz, l’eroe del suo cinema, in cui ha sempre in qualche modo parlato di se stesso, facendo di ogni singolo film, di ogni singola sequenza, “un tassello compiuto della sua personalissima immagine del mondo”.

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