Miriam si sveglia a mezzanotte, 40 anni del cult movie con David Bowie, Catherine Deneuve e Susan Sarandon

by Claudio Botta

Nel 1983 David Bowie, 36 anni compiuti, era una star planetaria. Si era lasciato alle spalle gli eccessi e l’autodevastazione indotta dalla cocaina negli anni del soggiorno a Los Angeles, la ricostruzione di sé, la ricerca e la sperimentazione degli anni berlinesi condivisi con Iggy Pop tra lo Schloss Hotel Gerhus prima e un appartamento all’Hauptstrasse 155 poi, gli Hansa Studios con vista sul Muro e i tanti club frequentati di notte. Desiderava un raccolto copioso dopo quindici anni di semina, ed era arrivato con l’album più venduto della sua carriera, ‘Let’s dance’, prodotto dal leader degli Chic Nile Rodgers, una svolta disco-funky spiazzante per i fans della prima ora ma che ne aveva amplificato la popolarità oltre ogni aspettativa, grazie anche alla spinta promozionale impressa dai videoclip dei tre singoli estratti in continua rotazione su Mtv, ed al successo del tour mondiale ‘Serious moonlight’, che ha registrato ovunque il sold out davanti a platee oceaniche. Parallelamente, era richiesto e affascinato dal mondo del cinema, dopo l’incredibile performance offerta sul set della sua opera prima, ‘The man who fell to Earth’ (L’uomo che cadde sulla Terra) di Nicholas Roeg, in cui ha dato corpo e anima all’alieno Thomas Jerome Newton tratteggiato dallo scrittore Walter Tevis.

E, dopo avere interpretato nel 1979 un Gigolò decadente sempre nell’amata Berlino post secondo conflitto bellico (con la diva Marlene Dietrich e la giovanissima Sydne Rome), e un cameo nella parte di se stesso nel drammatico ‘Christiana F’ due anni dopo, sarà uno degli acclamati protagonisti della 36esima edizione del Festival di Cannes con due film, in concorso (‘Merry Christmas Mister Lawrence’, in Italia tradotto con ‘Furyo’) e fuori concorso: ‘The Hunger’ (‘Miriam si sveglia a mezzanotte’ nella distribuzione italiana). Due opere complesse e due ruoli agli antipodi, in linea con l’inquietudine e la voglia di uscire dalla propria comfort zone delle origini.

‘The Hunger’ era l’esordio alla regia di Tony Scott, fratello minore del già leggendario Ridley che, dopo l’esordio con ‘I duellanti’ nel 1977, aveva già firmato due capolavori come ‘Alien’ nel 1979 e ‘Blade runner’ nel 1982, e aveva una società di produzione particolarmente attiva negli spot televisivi. Proprio nella RSA Tony si era formato con migliaia di pubblicità girate, che avevano suscitato l’interesse di Hollywood nei suoi confronti. Da qui un budget consistente da parte del produttore Richard Shepherd e la possibilità di ingaggiare come protagonisti della sua opera prima e di un triangolo intrigante due icone come appunto Bowie e Catherine Deneuve, e una Susan Surandon sempre più in rampa di lancio.

La quarantenne francese aveva acquistato lo status di diva algida e sofisticata dall’interpretazione della moglie frustrata Séverine Sérizy che si prostituisce per noia e per dare sfogo a pulsioni represse in un anonimo appartamento in ‘Belle de jour’ di Luis Bunuel (1967), consolidato dalla splendida interpretazione di Marion Steiner ne ‘L’ultimo metro’ di Francois Truffaut che le era valso il suo primo César come migliore attrice del suo paese. E insieme a Marcello Mastroianni era stata protagonista della storia d’amore più anticonvenzionale e anticonformista dell’epoca: sposato con Flora Carabella lui, divorziata lei, la figlia Chiara nata un anno dopo il primo incontro sul set, alti e bassi terminati con una brusca rottura dopo soli quattro anni ma un rapporto ricucito che col tempo si è trasformato in una solida amicizia, coltivata anche dalla scelta di Mastroianni di vivere (e morire) a Parigi lontano da impegni e dai riflettori.

La 37enne talentuosa americana Susan Sarandon aveva diviso e conquistato pubblico e critica nel 1977 con il ruolo della protagonista di ‘Pretty baby’ di Louis Malle, in cui interpretava Hattie, prostituta d’altro bordo che cerca di avviare allo stesso lavoro la figlia dodicenne Violet (interpretata da Brooke Shields), e diretta ancora da Malle aveva conquistato la sua prima candidatura agli Oscar con ‘Atlantic City, USA’.

Un cast variegato ma affine al tempo stesso, che rilegge il mito dei vampiri in perfetto stile Eighties e con fotografia, riprese e atmosfere patinate e chic (marchio inconfondibile dei registi provenienti dal mondo delle pubblicità, basti pensare ad Adrian Lyne e a due sue opere come ‘Flashdance’ e ‘9 weeks and ½’, iconiche del decennio), l’immaginario e l’estetica dark marcati dall’apparizione della band cult Bauhaus nelle inquietanti sequenze iniziali  della caccia alle prede in discoteche affollate, il brano ‘Bela Lugosi’s dead’ che è già un manifesto e un’anticipazione di quello che verrà (l’attore ungherese Bela Lugosi è stato infatti il primo interprete di Dracula). In una New York sospesa in un tempo indefinito e indefinibile (la nascita della protagonista interpretata dalla Deneuve può essere collocata nell’antico Egitto, lei immortale ma non può donare l’eterna giovinezza ai suoi amanti, nonostante si nutrano entrambi di sangue e carne umana, ma dopo 200 anni invecchiano improvvisamente, come accadrà a John, dandy bellissimo e misterioso interpretato da Bowie), così contrastante nei chiaroscuri e nell’art decor di un appartamento dal silenzio squarciato da musica classica e dalla curiosità di una inconsapevole ragazzina, e dalla frenesia, dalla confusione, dall’eccitazione delle notti in cui tutto cambia e tutto torna uguale, in un per sempre che ha bisogno di un continuo ricambio, di linfa cruenta. Un horror cerebrale ma anche molto intenso e passionale (la dottoressa Sarah Roberts, biologa studiosa di invecchiamento precoce interpretata dalla Sarandon, viene coinvolta in una relazione torbida e in scene di sesso saffico patinate e indimenticabili), dai numerosi sottotesti: la caducità e vacuità della ricerca dell’eterna giovinezza, le riflessioni sul tempo, sull’amore, sulla solitudine, sul desiderio (ben oltre la metafora classica del vampirismo). Montaggio molto serrato e curato, così come la colonna sonora, che come prima accennato spazia dalle atmosfere gotiche a Iggy Pop, da Schubert a Bach, da Léo Delibes (le scene del corteggiamento tra le due donne sono accompagnate e sottolineate da un suo bellissimo brano, ‘Il canto della schiava Malika e della principessa Lakmè’, dall’opera ‘Lakmé’) a Ravel. Il make up di Bowie invecchiato, curato da Dick Smith, merita una citazione a parte.

Un film da rivedere, nella consapevolezza della sua imperfezione (l’estetica da lungo videoclip che appare discutibile con gli occhi di oggi, una sceneggiatura fragile nella seconda parte) e del suo fascino, dell’attrazione e dalla decadenza evocata da sguardi magnetici. A margine, David Bowie e Susan Sarandon ebbero una breve e intensa relazione durante e dopo le riprese, e l’attrice fu una delle pochissime a sapere della malattia della rockstar inglese – ma ormai trapiantata a New York – ed a parlare con lui nelle settimane e nei giorni precedenti la morte. Il film successivo di Tony Scott fu ‘Top Gun’ con Tom Cruise, il maggiore incasso nel 1986, e la sua carriera sarebbe proseguita tra successi e flop, fino al drammatico suicidio lanciandosi dal Vincent Thomas Bridge, nel distretto San Pedro di Los Angeles, nel pomeriggio del 19 agosto 2012.

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