Musical, il trucco e il sogno

by Orio Caldiron

Sospeso tra muto e sonoro, melodramma e musical, risultato e progetto, Il cantante di jazz (1927) di Alan Crosland, il primo talkie, sembra fatto apposta per incarnare la svolta della fine degli anni venti destinata a cambiare il corso del cinema. Nessuna delle grandi case se l’era sentita di investire su sistemi pioneristici considerati toppo costosi. Soltanto la Warner Bros. in piena crisi decide che le conviene rischiare.

La scommessa è quasi un salto nel vuoto se Sam Warner, uno dei titolari, per lo stress muore d’infarto il giorno prima della prima. Il successo della storica proiezione del 6 ottobre 1927 al Warners’ Theatre convince anche i più scettici. La storia del giovane ebreo Jakie Rabinowitz, il figlio del cantante di sinagoga che scappa di casa per sfondare a Broadway, commuove quasi come un rito di passaggio il pubblico segnato dai grandi flussi migratori delle più diverse etnie. Non importa che i dialoghi siano pochissimi e ancora molte le didascalie. La perfetta sincronizzazione della musica decreta il trionfo del film. Soprattutto quando Al Jolson inginocchiato, le braccia protese verso gli spettatori, canta “My Mammy” il pubblico impazzisce.

Il cantane di jazz

Naturalmente non ci si può aspettare che la rivoluzione tecnica corrisponda subito alla rivoluzione estetica. Soltanto nei decenni successivi – i mitici trenta e quaranta – il cinema americano raggiunge la maturità, in bilico tra autore e artigianato, routine e trasgressione, prototipo e serie. Il cuore del sistema, anzi dello Studio System, è la codificazione dei generi che si vengono definendo nella stagione d’oro della fabbrica dei sogni. La macchina hollywoodiana raggiunge il massimo della popolarità e conquista in modo irreversibile il pubblico americano e internazionale, imponendo miti di consolazione e modelli di comportamento a tutto il mondo. Sono soprattutto i generi, con le loro forti scansioni spettacolari e le singolari capacità di assecondare le attese degli spettatori, a svolgere un ruolo determinante in un’epoca in cui anche l’autore più geniale deve fare i conti con le regole dell’azienda e nessuno può infischiarsene dei risultati del box office.

DAL MUTO AL SONORO

Se il genere più nuovo è il musical che senza il sonoro non ci sarebbe neppure, non bisogna cedere alla tentazione di farlo coincidere con i primi vagiti del sonoro, quando Hollywood frastornato dalla novità tecnologica non esita a saccheggiare la tradizione musicale di Broadway sfornando una grande quantità di titoli “all talking, all singing, all dancing”, che si rivelano spesso insulsi zibaldoni di numeri di rivista. Il decollo del genere avviene soltanto quando la musica dei compositori più dotati – Irving Berlin, Cole Porter, Jerome Kern, George Gershwin – s’incontra con il genio di Busby Berkeley, il grande coreografo che con l’estro inimitabile dell’invenzione tecnica e la disinibita follia visiva sigla gli anni di formazione del primo musical in un gruppo di film della Warner Bros – Quarantaduesima strada (Lloyd Bacon, 1933), La danza delle luci (Melvyn Le Roy, 1933), Viva le donne! (ancora Bacon, 1933) –  che si rivelano profondamente innovativi sul piano del linguaggio. Lo scatenato dinamismo delle immagini, le inconsuete angolazioni della cinepresa, le originali trasformazioni del corpo di ballo scrollano di dosso dal musical la polvere del palcoscenico, mentre lo fanno dialogare con lo slancio creativo delle avanguardie artistiche.

Quarantaduesima strada

Il paradosso è che senza rinunciare alla formula del blackstage musical, cioè raccontando sia pure con varianti la messa in scena di una rivista, tutti e tre i film riflettono il clima della Grande Depressione e lo spirito del New Deal, le difficoltà e le speranze di un momento drammatico della storia americana. Non solo Quarantaduesima strada è paradigmatico nel modo in cui anche l’ambiente dello spettacolo vive la crisi, ma il celebre “Remember My Fargotten Man”, il blues sul combattente della prima guerra mondiale vittima della disoccupazione di La danza delle luci è una commossa denuncia del problema dei reduci. Quando le file dei soldati in partenza si confondono con i disoccupati che avanzano verso il pubblico, ci si accorge una volta di più che le astratte geometrie di Busby Berkeley, i suoi caleidoscopici onirismi sono tutt’altro che fuori dalla realtà e dalla Storia.

LA STAGIONE DELLA MGM

Negli anni seguenti la parola passa alla Metro che s’impone grazie a Fred Astaire e Ginger Rogers, la coppia più famosa del musical americano, un musical fiabesco ambientato in hotel, transatlantici, set lontani e aristocratici. Subito dopo la grande affermazione di Cappello a cilindro (Mark Sandrich, 1934) – che fa di “Cheek to cheek” il momento clou della leggenda – s’inaugura il loro momento magico. L’universo sofisticato dei film precedenti cede alla quotidianità di Follie d’inverno (George Stevens, 1936), dove Ginger e Fred sono due americani come tanti appena usciti dalla Grande Depressione che si riconoscono ancora nella scalata al successo tipica dell’”american way of life”.

Cappello a cilindro

Se è impossibile rievocare la storia di un genere che echeggia di voci, di divi, di miti, di canzoni, si può invece segnalare la svolta del dopoguerra che coincide con l’affermazione di una nuova generazione di registi – Stanley Donen, Vincente Minnelli, Gene Kelly – a cui si deve la trasformazione del linguaggio del musical in stile. Il film che segna il passaggio dal clima artificioso del passato al nuovo corso è Un giorno a New York (1949), dove Gene Kelly, Frank Sinatra, Jules Munshine non sono gente di spettacolo ma tre marinai che sbarcano per la prima volta a New York con una licenza di ventiquattr’ore. Sconvolto da un adrenalinico scoppio di energia, il musical non sarà più lo stesso.

Un giorno a New York

Le tavole del palcoscenico sono sostituite dalle strade, dalla metropolitana, dall’Empire State Building, il punto più alto della Grande Mela, che non è solo lo scenario privilegiato in cui i tre si scatenano a caccia di ragazze, ma un vero e proprio protagonista. Qui ci sono già le premesse di quello che di lì a poco sarà Cantando sotto la pioggia (1952), anch’esso di Stanley Donen e Gene Kelly, in cui riescono mirabilmente a ricostruire la storia del musical,  facendone una grande occasione metacinematografica. Solo dell’anno dopo è Spettacolo di varietà di Vincente Minnelli, uno dei grandi momenti del genere, ma anche un atto d’amore per il mondo dello spettacolo, per gli attori, i ballerini, i professionisti che consentono al mito di andare in scena. Due film conclusivi, testamentali. Perché la grande stagione del musical classico non va oltre la metà degli anni cinquanta, scompare proprio quando sta raggiungendo i suoi vertici più alti, i suoi risultati più complessi e maturi.

La febbre del sabato sera

Ma la morte del musical è solo un trucco, un cambiamento di scena, l’avvio di una trasformazione. Finisce il musical in cui si sono venuti stratificando la storia complessa dello spettacolo e del cinema americano, le scelte stravaganti dei coreografi, le mutazioni genetiche imposte dai registi, le spericolate acrobazie dei virtuosi del pas de deux. Ma non muore l’anima del musical. Non muore il sogno. Che prosegue, insopprimibile, sotto altre modalità espressive, sotto altre forme estetiche che possono far storcere il naso ai puristi fedeli al canone ma spesso conquistano il cuore degli spettatori. Qualche titolo? West Side Story (Robert Wise, Jerome Robins, 1961) con le guerre tra i Jets e gli Sharks, le bande rivali di Manhattan. Cabaret (Bob Fosse, 1972) con i fumosi club berlinesi dove si intravedono i primi bagliori nazisti. La febbre del sabato sera (John Badhan, 1977) in cui Tony Manero  con il dito puntato verso il cielo annuncia l’epoca  della disco music. Hair (Milos Forman, 1979) ancora New York tra il Central Park e il Greewich Village, ma pieno di giovani che bruciano le cartoline precetto per protestare contro la guerra nel Vietnam. The Blues Brothers (John Landis, 1980), irresistibile omaggio al rock e al blues in un clima demenziale di distruzione del mondo per rifarlo da capo.

Senza dimenticare il recente successo di La La Land (Damien Chazelle, 2016) che, girato in esterni a Los Angeles, non rinuncia alla dialettica tra “la vita reale e la vita sognata” ma prende le distanze dai modelli hollywoodiani d’antan per far dialogare il genere con le dissonanze e i compromessi della vita di ogni giorno, nello stesso momento in cui esalta le emozioni e le sorprese di un universo a sé in cui tutto è possibile. La sfida continua.

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