Orson Welles, un genio al lavoro

by Orio Caldiron

«Vi parlo dal tetto del Palazzo della Radio, New York. Le campane che sentite suonano per avvertire la gente di evacuare la città all’avvicinarsi dei marziani. Nelle ultime due ore circa te milioni di persone hanno preso la strada per il nord. Il viale Hutchison River è ancora aperto al traffico. Evitare i ponti per Long Island, impraticabili senza speranza. Tutte le comunicazioni con le rive del Jersey sono state interrotte dieci minuti fa. Non ci sono più difese. Il nostro esercito annientato. Artiglieria, aviazione, tutto distrutto. Questo potrebbe essere l’ultimo comunicato. Staremo qui fino alla fine».

La guerra dei mondi – che finisce con l’agghiacciante annuncio dalla Columbia Broadcasting – va in onda il 30 ottobre 1938, alla vigilia di Halloween. Nessuno dello staff si aspetta il clamore che la trasmissione susciterà. Il radiodramma adatta il romanzo di fantascienza di H.G.Welles con una tecnica di radio nella radio in cui le news si alternano all’intrattenimento. L’annunciatore interrompe un programma musicale avvertendo che si sono registrati elementi di turbamento sul pianeta Marte. Ma siamo solo all’inizio. Nei minuti successivi la trasmissione diventa sempre più allarmante e catastrofica fino al momento in cui, dall’ultimo piano della sede della radio a Times Square, il reporter descrive con le sue ultime energie la distruzione di New York. Nel silenzio assoluto si sente a pochi secondi dalla fine un radioamatore che chiede: «C’è qualcuno in ascolto?».

Sembra che più di un milione e mezzo di americani si siano spaventati sul serio lasciandosi andare a comportamenti irrazionali e a scene isteriche, fuggendo in automobile o avvertendo i vicini che il mondo stava per finire, creando sovraffollamenti e ingorghi. Lo shock collettivo fa della trasmissione un caso ancora aperto nella storia dei mezzi di comunicazione di massa. Nelle interviste dell’indomani, Orson Welles non sa  se deve scusarsi per il deplorevole incidente o ringraziare per l’inatteso trionfo. Senza volerlo, è diventato da un giorno all’altro un terribile manipolatore di dimensioni planetarie.

Non sorprende che l’anno successivo si lasci catturare da Hollywood firmando un contratto con la Rko come produttore-regista-sceneggiatore-attore. La più piccola delle major lo convince assicurandogli un controllo artistico senza precedenti negli annali dell’industria cinematografica, compreso il diritto al montaggio finale in un’epoca in cui la logica degli studios lo esclude tassativamente. Quarto potere, oltre all’apporto fondamentale di un gruppo di tecnici straordinari (tra i quali sta a sé Gregg Toland, il grande direttore della fotografia che sa tutto delle nuove tecniche e non teme la sfida della sperimentazione più audace) deve molto alle condizioni eccezionali in cui il ragazzo prodigio del teatro e della radio è messo in condizione di lavorare nel mondo del cinema. Senza il costante sostegno della direzione Rko probabilmente il film non sarebbe mai stato realizzato.

LAVORAZIONE TOP SECRET

Sin dalla sua prima apparizione pubblica del maggio 1941, Quarto potere ha uno straordinario successo di critica che ne fa in assoluto il film più acclamato dalla stampa americana. Sembra incredibile, ma quella che oggi viene considerata una delle opere fondamentali della storia del cinema fino all’ultimo aveva corso il rischio di non arrivare neppure nelle sale. Se durante la lavorazione (blindatissima) tutti sanno che il cittadino Kane s’ispira, almeno in parte a William Randolph Hearst, ma sono tenuti a mantenere il segreto, nelle anteprime per i giornalisti non si può continuare a nascondere il contenuto effettivo del film.

Nonostante aggiustamenti, autocensure, depistaggi, la storia di Charles Ford Kane, la sua megalomania, l’arroganza, la mania dell’accumulo, il castello-mausoleo all’insegna del kitsch più sfrenato tra gondole, campi da golf e scimmie in gabbia, pesca a piene mani nella irresistibile ascesa del settantasettenne magnate dei mass media, che tra giornali, riviste e stazioni radiofoniche controlla una gigantesca catena di mezzi d’informazione, servendosi della manipolazione spregiudicata delle notizie e di metodi clamorosamente scandalistici.

Louisella Parsons, una delle grandi pettegole di Hollywood e corrispondente dei giornali di Hearst, è infuriata perché sin dall’inizio ha fatto il tifo per il film, senza accorgersi che parla del suo capo. Le sue minacciose telefonate ai dirigenti della Rko avviano una accesa campagna intimidatoria in cui l’ostracismo alle produzioni della casa si alterna al ricatto nei confronti dell’intera industria cinematografica, accusata di assumere rifugiati e immigrati. Le testate più allineate si rifiutano di ospitare la pubblicità del film, ma smettono di attaccarlo nei loro editoriali quando si accorgono di contribuire involontariamente alla sua affermazione. La strategia più subdola è quella di Louis B. Mayer della Metro che, anche a nome di altri produttori, propone a George J Schaefer di rimborsare alla Rko l’intero costo del film purchè sia subito distrutto. Se l’avessero chiesto al consiglio di amministrazione, la sorte del film sarebbe stata segnata, ma il tentativo fallisce perché Schaefer è l’uomo che ha voluto Welles a Hollywood. Si tiene per sé la proposta della controparte, nonostante la protesta diffamatoria prosegua, è convinto che la proiezione di Quarto potere nelle maggiori città americane gli renderà giustizia.

Le previsioni si avverano. Orson Welles stravince. Non è da tutti debuttare a ventisei anni con un capolavoro che continua ancora oggi a fare discutere. La stessa scelta di prendersela con uno degli uomini più famosi e più potenti del mondo si rivela una scorciatoia verso la celebrità, con cui il favoloso personaggio è già da tempo in buoni rapporti. Il secondogenito dell’eccentrica coppia del Midwest (la madre è una nota pianista, il padre un inventore che vive di rendita) passa i suoi primi anni in un clima eccitante e caotico. Le visite degli amici importanti si alternano alle occasioni mondane, i concerti e gli spettacoli teatrali agli scontri tempestosi dei genitori che molto presto divorziano. Orson, è una sua battuta, impara a leggere a cinque anni sui testi shakespeariani della madre e a fumare a dodici i sigari del padre. La morte della madre è un trauma che lo segna profondamente. Se ne va con lei, giovane, bella e dinamica, una parte della sua infanzia all’insegna della musica. Nonostante sia già un ottimo violinista, da quel momento non toccherà più uno strumento. Quando ha quindici anni gli muore anche il padre, cui lo legava un rapporto di cameratismo e di ammirazione maturato nei numerosi viaggi fatti insieme in giro per il mondo. Maurice Bernstein, un medico di Chicago, amico di famiglia, per qualche anno gli fa da tutore.

PRIMA IL TEATRO E POI LA RADIO

Il periodo più felice della sua adolescenza lo trascorre alla Todd School di Woodstock, Illinois, una scuola moderna e innovatrice, dove le eccezionali qualità di un ragazzo superdotato sono incoraggiate. La passione per il teatro esplode in una serie di spettacoli in cui è adattatore, regista, scenografo, attore. Subito dopo il diploma, lascia gli Stati Uniti per l’Irlanda. A sedici anni entra nella compagnia del Gate theatre di Dublino, con cui rimane per un paio di stagioni, apparendo in ruoli sempre meno marginali e sperimentandosi nella messinscena di numerosi spettacoli. Ritornato negli Stati Uniti, è già un professionista con le credenziali necessarie per entrare in compagnie importanti nelle quali s’impegna in lunghe tournée, dove sfoga il suo spirito zingaresco di vagabondo. L’approdo del lungo apprendistato è l’avvio con John Houseman del Federal theatre di New York che, nel clima fervido e trascinante del New deal rooseveltiano, allestisce alcuni spettacoli anticonvenzionali. Il più noto è il “Macbeth” di ambientazione haitiana con gli attori truccati da neri. Ma ancora più decisivo è il decollo del Mercury group, la compagnia stabile di trentaquattro membri che, rilevato un vecchio teatro all’angolo fra Broadway e la quarantunesima strada, diventa per parecchi anni il suo principale punto di riferimento. La messinscena del “Giulio Cesare”, in abiti moderni con sfoggio di saluti fascisti e allusioni alle oceaniche adunate naziste, è il grande successo della nuova formazione, osannato dalla critica per la sua spregiudicata efficacia.

Nel frattempo è iniziata per Orson Welles l’avventura della radio, che nel giro di pochi anni diventa una sorta di vorticosa immersione, in cui rimbalza da un programma di divulgazione storica a un serial poliziesco, da un dramma a un feuilleton a puntate. In una disperata corsa contro il tempo passa da un piano all’altro della Cbs, entrando nelle minuscole cabine di registrazione per dire in fretta alcune battute e precipitarsi subito in un altro programma. La singolare capacità di affabulazione, esaltata dalle modulazioni di una voce vibrante e ipnotica, e l’abilità della messinscena, in grado di sfruttare al meglio le risorse del suono e della musica, animano oltre un’ottantina di adattamenti letterari tratti da drammi, commedie, romanzi, in cui William Shakespeare sta accanto a Charles Dickens, Robert Louis Stevenson a Bram Stoker, Alexandre Dumas a Victor Hugo, Thorton Wilder a Ernst Hemingway. Scrittori del passato e narratori contemporanei, grandi dimenticati e autori per tutte le stagioni alimentano un’autentica biblioteca popolare di radiodrammi, che arrivano al pubblico attraverso il magnetismo di uno straordinario narratore di storie per il quale l’invisibilità rappresenta una sfida in più nel grande gioco di un mezzo dalle inesplorate potenzialità.

L’orgoglio degli Amberson (1942)

Quando nell’ottobre del ’41 sta girando L’orgoglio degli Amberson, Orson Welles viene contattato dalla Commissione per gli affari panamericani, che gli chiede di realizzare un film in Brasile per promuovere le buone relazioni tra i due paesi e riaffermare la presenza degli Stati Uniti in un continente in cui i nazisti hanno trovato un qualche seguito. Criticato perché non aveva fatto il servizio miliare, vede nell’impresa sudamericana un’occasione per riscattarsi mettendosi al servizio di una nobile causa in tempo di guerra. La stessa Rko non è contraria, anche perché la Commissione si impegna a finanziare almeno in parte il progetto. La situazione è però complicata dal sovrapporsi degli impegni. Si sbarazza subito della regia di Terrore sul Mar Nero (1942), il thriller di scarso interesse impostogli dallo studio, passandola a Norman Foster e riservandosi un piccolo ruolo d’interprete. Ma all’inizio del 1942, concluse le riprese di L’orgoglio degli Amberson, non può rimandare oltre l’avvio del film sudamericano.

L’AVVENTURA SUDAMERICANA

Orson Welles, più ambasciatore culturale che “visiting director”, arriva a Rio giusto in tempo per filmare in technicolor il carnevale, che il governo brasiliano propone sin dall’inizio come uno degli argomenti obbligati del progetto. Nel frattempo è in ansia per la sorte di L’orgoglio degli Amberson, di cui non riesce a seguire il montaggio come avrebbe voluto. Se ne occupa, tenendosi il più possibile in contatto con lui, il futuro regista Robert Wise. Nonostante moltiplichi le indicazioni precise e vincolanti su cosa fare, a migliaia di chilometri di distanza dalla moviola la sua inquietudine è ampiamente giustificata. Il film, dopo alcune disastrose anteprime, viene distribuito senza grande pubblicità in due sale di Los Angeles con risultati sconfortanti. Si dice che trent’anni dopo, vedendolo per caso alla televisione, il regista non abbia potuto trattenere le lacrime.

L’avventura sudamericana sembra avere trovato la strada giusta con la scoperta del samba, di cui Welles s’innamora fino al punto da dedicarle una parte rilevante in It’s All True (così si chiamerà il film brasiliano) destinato a ripercorrere la storia, le origini, i ritmi di una musica popolare dalla forte sensualità e dal profondo ruolo sociale. Ma quando comincia a filmare nelle favelas, in cui è nato il samba, il governo brasiliano comincia ad accorgersi che il progetto va allontanandosi sempre più dai limiti turistici in cui aveva sperato di contenerlo. L’altro episodio su cui punta molto è la ricostruzione del viaggio dei quattro jangadeiros che, sfruttati dagli intermediari cui vendono il pesce, affrontano il viaggio da Fortaleza, nell’estremo nord, fino a Rio a bordo delle zattere fatte di sei tronchi e una vela, un viaggio straordinario lungo l’intero paese alla fine del quale sono per tutti degli eroi popolari. Il presidente brasiliano è costretto a riceverli e a soddisfare le loro richieste.

Alla Rko è tempo di bilanci. Ci si accorge che i budget stanziati per L’orgoglio degli Amberson e per It’s All True sono stati ampiamente superati, mentre gli incassi di Quarto potere non si avvicinano affatto ai costi. Le prime riprese del carnevale di Rio inviate a Hollywood (un dirigente della produzione le definisce «un mucchio di selvaggi che saltano su e giù») non fanno che aumentare le perplessità e accelerare i cambiamenti al vertice ormai nell’aria. George J. Schaefer viene licenziato. Welles è richiamato dal Brasile con la troupe. Si capisce già come andrà a finire. Ma un gruppo di fedelissimi, formato dal producer Richard Wilson, un operatore e un paio di tecnici, invece di ritornare a Hollywood, rimane con Welles e utilizza i pochi soldi che restano per continuare a filmare per altri due mesi il viaggio dei pescatori. Orson, che non ha mai visto il materiale girato, la ricorderà come un’esperienza straordinaria e terrificante. Soltanto nel 1993, otto anni dopo la morte del regista, It’s All True appare miracolosamente sullo schermo del New York film festival con il sottotitolo “Based on an Unfinished Film by Orson Welles”. Il materiale del misterioso “film incompiuto”, riapparso per una serie di circostanze fortuite, è stato pazientemente montato seguendo per quanto possibile il progetto originario dell’autore, da Richard Wilson, Bill Krohn e Myron Meisel. Si tratta di un film straordinario, in cui il grande illusionista s’incontra con lo scenario incandescente della realtà, con l’avventura umana dei pescatori più poveri del mondo, regalandoci un film bellissimo e commovente, che, nella sua apertura antropologica alle culture e alle etnie di un altro mondo, non ha precedenti nella storia del cinema mondiale. Certo, un film che gli costa moltissimo perché, nei mesi successivi a Quarto potere, il flop di L’orgoglio degli Amberson e il fallimento di It’s All True, alimentano la leggenda iettatoria del genio irresponsabile che non rispetta i budget e lascia i film a metà. Nessuna major gli darà più carta bianca.

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