Pasolini: i cento anni di una vita immensa e crudele. E quelle madri vili e amatissime

by Mimmo Cicolella

Quanto è giusto che Pier Paolo Pasolini sia morto? Quanto è giusto che sia stato ammazzato in quel mondo orrendo? Cosa fa di uomo un santo o un eroe? C’è il Libero Arbitrio anche nello scegliere la propria morte? Il 5 marzo Pasolini, una delle figure più grandi e più controverse  della letteratura italiana contemporanea, avrebbe compiuto 100 anni. Ma stavolta non vogliamo soffermarci sulla sua poetica, sui suoi saggi e romanzi, né sulla sua attività di regista e giornalista.

Insomma dovremmo parlare di un genio. E fra l’altro per parlare di Pasolini e della sua immensa opera e soprattutto del perché di quella sua espressività di contenuti, ci sarebbe bisogno di tirar fuori nuovamente il  “Battaglia”, o il “Sansone”. Praticamente dovremmo farci una ripassata della grande critica letteraria per cogliere tutto ciò che è stato Pasolini per l’Italia e per il mondo. Invece vorremmo soffermarci sull’aspetto più faticoso di Pasolini: la sua vita di uomo. Nei vangeli è scritto che Gesù conoscesse esattamente il suo percorso e dove l’avrebbe portato. Ed essendo figlio di Dio sapeva esattamente, istante per istante, fino la crocefissione, quale fosse la sua terribile fine. La stessa cosa la troviamo nella vita di molti santi martiri. Ma essendo santi non ci poniamo la domanda: perchè l’ha fatto? Diverso è per un laico. E a quel punto non si tratta più di un santo, ma lo cataloghiamo come eroe. E in lui viviamo quell’azione coraggiosa della nostra vita che non riusciamo a vivere. Del resto il Manzoni per bocca di Don Abbondio lo scolpisce nella pietra: “ Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Ma il dubbio su Pasolini rimane: fu vero eroismo il suo, o il testamento vivo di una vita tragicamente segnata dalla sua anima inquieta? Che Pier Paolo Pasolini conoscesse il suo destino è cosa certa. I suoi scritti e la sua vita privata vissuta borderline, erano il segno inequivocabile di una morte analizzata al microscopio e rincorsa nel suo stato più crudo e terribile. Nel “Vangelo secondo Matteo”, ancor oggi un dipinto scarno e modernissimo della vita di Gesù di Nazareth, Pasolini, che regolarmente incarna i suoi personaggi, cercando di renderli sempre più terreni e vicini alle miserie umane, individua nella Madonna una madre sofferente e complice del martirio del figlio. Che è il pensiero pasoliniano, derivante da una vita morbosamente vissuta nella proiezione materna, ma anche nella sua eterna ombra. Tant’è che Maria nel suo Gesù, invecchia, a dispetto delle sacre scritture e dei vangeli. Nella corruzione della sua carne, c’è lo specchio di una società che muore nel martirio del figlio. Quel figlio che è portatore di Verità, ma che Pasolini, alla fine, innalzandolo nella sua gloria, demanda all’uomo il potere di cambiare il mondo e no alla santità di un dio. E prendendo esempio dalla sua stessa scrittura del Cristo, la sua vita “balla” perennemente fra lo “scorticare” le facciate “ barocche e corrotte” del sistema, come lui stesso ama definirle, e “ scorticare” se stesso, sia psicologicamente, che materialmente. Pasolini è alla continua ricerca del Dolore perché è l’unica maniera per esorcizzarlo. E più scava nell’oblio della società e più scava in se stesso, sapendo che quella sarà la strada che lo porterà al suo martirio. E ci va terrorizzato verso ciò che l’aspetta, ma trionfante come Gesù verso suo padre, in quanto unica Verità. Lo stesso padre che con la sua assenza lo ha consegnato ad una madre invasiva, soffocante, ma ricercata allo spasmo.

Le madri sono quindi “vili”,  “preoccupate che i figli conoscano la viltà per chiedere un posto, per essere pratici”. Questa viltà sembra essere costitutiva dei loro tratti fisici, così a lungo segnati dall’incapacità di opporsi ad una realtà che sembra annientare ogni legame affettivo. Esse sono caratterizzate, infatti, da “un male che deforma i lineamenti in un biancore che li annebbia”, che le rende simili tra loro, in un’omologazione distruttiva di ogni particolarità. Si tratta dunque di madri “mediocri”, incapaci di dare sia dolore che gioia o di trasmettere qualsiasi tipo di amore. Esse sono paragonate a bestie, in uno stadio di degradazione dal quale non è possibile riemergere.

I figli stessi di queste madri moralmente degradate non sono più esseri umani nella propria totalità ma “feti” che apprendono il valore del servilismo ancor prima di nascere. Il nuovo nato viene partorito quindi già “servo” di una realtà che non ha la forza morale di cambiare. Al feto viene infatti insegnato come un “servo può essere felice odiando chi è, come lui, legato, come può essere, tradendo, beato, e sicuro, facendo ciò che non dice.” La stessa felicità originata dall’odio appare al lettore come un ossimoro o un frutto degenerato di una realtà ormai deteriorata fino alle fondamenta.

Una chiara metafora della società corrotta da questa innata morbosità materna, che successivamente confermerà nelle “Pagina Corsare”. Infatti il letterato racconta la propria infanzia, descrivendo così il rapporto con la madre: « semplicemente che ho provato un grande amore per mia madre. La sua “presenza” fisica, il suo modo di essere, di parlare, la sua discrezione e la sua dolcezza soggiogarono tutta la mia infanzia. Sono rimasto convinto per molto tempo che tutta la mia vita emozionale ed erotica era stata determinata esclusivamente da questa passione eccessiva, che ritenevo addirittura una forma mostruosa dell’amore.» Pierpaolo Pasolini sapeva esattamente a cosa andava incontro con la sua vita smisurata, scandita dal suo genio “infuocato”, ma soprattutto da un uomo fragile e forte allo stesso tempo fino al degrado totale della sua carne e della sua immagine. Pasolini con la sua vita privata che ostentava come la sua poetica, voleva essere l’esempio vivo e barbaro di una umanità che è pronta ad adorare il Cristo, ma non a seguirlo. E’ Dio che fallisce come creatore dell’Uomo e ne scardina qualsiasi dogma per affermare che l’unico vero grande strumento lo ha lasciato suo figlio, che si è fatto uomo, ed è il Libero Arbitrio. Ed è proprio in questo che il poeta chiude la sua esistenza nella maniera più tragica, contestando a Dio di essere l’unica salvezza dell’Uomo.

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