Pietro Germi: la frontiera, la legge e i miti del grande autore

by Orio Caldiron

Se si ripensa a Pietro Germi e ai suoi film più celebri, non si può non restare ammirati dinanzi alla forza delle immagini, alla sicurezza della composizione, alla scioltezza della scansione narrativa. Si avverte subito l’energia costruttiva del cineasta che si risolve integralmente nell’efficacia del racconto, nella fascinazione dello spettacolo, nella solidità della messinscena. Ma la “fisicità” del grande artigianato non riesce a nascondere del tutto la lacerazione.

Se il senso pieno, forte, del racconto si disperde talvolta nell’approssimazione del finale, non mancano neppure gli incidenti di percorso, gli interni sbilanciamenti che attraversano l’organicità del progetto cinematografico come se qualcosa di irrisolto, un grumo di segreta fragilità, scompaginasse dall’interno la centripeta convergenza dei vari elementi, sconvolgesse almeno in parte le studiate simmetrie della rappresentazione.

Si tratta di tensioni tutt’altro che riconducibili a uno stesso registro, a una stessa unità di misura. Sono molto evidenti o appena percepibili, molto esplicite o particolarmente sottili, dentro il testo o fuori testo, cinematografiche o extracinematografiche, psicologiche o professionali, ma tutte in qualche modo importanti per ricomporre un ritratto più attendibile di un cineasta di grande talento che è più difficile e sfuggente di quanto lascino intendere le etichette ricorrenti e fortunate dell’uomo all’antica, del regista all’americana, dell’autore che tenne a battesimo la commedia all’italiana. La trasparenza di un cinema che sa essere così esplicito, solare, gridato, ma anche così sofferto, traumatizzato, dissociato, ci consegna un’immagine più complessa, insieme più intensa e conflittuale, un ritratto più chiaroscurato e sospeso, più vivo.

Il cinema del regista genovese si anima nella contrapposizione, tra indignazione sociale e esuberanza spettacolare, tra ambizione neorealista e tentazione allucinatoria, tra sguardo italiano e strabismo americano, tra empito drammatico e deformazione della commedia, tra epos e grottesco, ma anche tra genere e autobiografia, tra autore e professionista, tra regista e attore, tra regista e produttore.

Pietro Germi

IL PRIMO FILM

Le prime immagini di Il testimone (1945), il film d’esordio, sono le immagini concitate della grande città, brulicante di uomini vicini ma estranei, una città-occhio che sembra cogliere in flagrante la realtà per risolverla nell’astrazione, nel fuori storia del mito. Sin dall’inizio il mito della legge è il grande mito personale del regista. La legge come apparato istituzionale di codici, tribunali, prigioni, casellari giudiziari, ma anche come sistema morale che ispira la condotta del singolo, che responsabilizza i comportamenti individuali nei confronti degli altri e di se stessi. I motivi ricorrenti della legge, della giustizia, della colpa non sono visti soltanto nello scenario esterno e burocratico dell’istituzione, ma anche nello scenario interiore della coscienza, del dover essere, della scelta morale. L’ossessione della legge ritorna a più riprese nel corso di tutta l’opera di Pietro Germi come ancora di salvezza, punto fermo nei disordini del singolo e nella trasgressione del privato, estremo tentativo di esorcismo nei confronti dell’irrazionalità dell’esperienza. Il passaggio a Gioventù perduta (1947) è particolarmente importante perché segna la scoperta del “giallo” come secolarizzazione del mito della giustizia.

Gioventù perduta

La scoperta del genere fa tutt’uno con la lezione del cinema americano che ha un posto fondamentale nella formazione del regista. Non si tratta soltanto dell’adozione dei modelli rappresentativi di un cinema dai ritmi concitati e dalle scansioni nette, ma di una immedesimazione più totale – è un paradosso solo apparente – un più profondo rapporto con la realtà italiana. Se in un’equazione senza residui il cinema americano è il cinema tout court, attingere alla sua lezione non significherà tanto ripercorrerne i tratti esteriori, rifargli il verso in una imitazione in bilico sul manierismo, quanto piuttosto cercare di stabilire con la realtà italiana lo stesso rapporto che i cineasti americani hanno con la loro realtà nazionale.

Se nessuno sembra scommettere sin dall’inizio sul giallo con la stessa determinazione di Germi, soltanto l’adozione del modello del western, il cinema americano per eccellenza, gli consente, attraverso la piena metabolizzazione del suo tenace americanismo, di arrivare al suo primo film veramente importante. Ma In nome della legge (1948) – il suo primo western e insieme il primo western italiano prima di Sergio Leone – coincide con la scoperta della Sicilia, con l’universo di scelte primordiali di cui rivive il mito personale dell’autore, e cioè il mito originario della legge che era affiorato sin dal suo esordio. Se la scelta di campo è molto netta, l’utopia neorealista cede a un cinema energetico fatto di forti sottolineature, tagli netti, ritmi incalzanti, che mette in scena un percorso emozionale più che un processo conoscitivo.

Nella grande piazza di Capodarso si inscenano i rituali dell’indifferenza e dell’omertà, che si ripropongono nella pietraia in cui giace riverso il cadavere di Vanni ammazzato come un coniglio, nei sopralluoghi a dorso di mulo nella vecchia miniera abbandonata, ma anche nei tanti momenti del film in cui il giovane pretore Massimo Girotti incede solitario tra le case calcinate e nelle stradine sassone come gli instancabili camminatori dei sogni. La scoperta del paesaggio siciliano assume la forma di una allucinazione – un cortocircuito che ci consente di entrare nel fotogramma – attraverso cui lo sguardo straniero padroneggia il territorio, s’impossessa cinematograficamente dello spazio.

Negli anni successivi si rivela sempre più difficile coniugare la nozione forte dello spettacolo con la partecipazione polemica e intransigente ai problemi del proprio tempo, alle tensioni della vita civile, alle contraddizioni dell’individuo e della società. Soltanto con Il ferroviere (1955) e L’uomo di paglia (1957), che vengono dopo un lungo periodo di inattività e di brucianti insuccessi, Germi sembra ritrovare uno slancio nuovo, quasi un nuovo inizio capace di imprimere una svolta profonda alla sua carriera prima del passaggio alla commedia, il grande salto a cui dovrà la sua definitiva consacrazione di autore. Al centro di entrambi i film è il cambiamento, che si annuncia nella società italiana degli anni cinquanta con la crisi delle antiche certezze, il rapporto traumatico con i figli più grandi, l’incrinarsi progressivo della solidarietà con i compagni di lavoro. C’è la nostalgia per l’unità perduta, il vagheggiamento crepuscolare per quello che è stato, ma anche il senso cupo della fine, lo smarrimento di fronte al cambiamento intuito come un’oscura minaccia, il senso di vuoto in cui sembra di sprofondare.

Cinema della trasmutazione e del malessere, tagliato verticalmente dai sussulti della nevrosi e dai soprassalti della schizofrenia, quello del Germi di mezzo è un cinema dell’ambiguità radicale, sospeso tra sovversione e fuga com’è nella grande tradizione del melodramma che mette in scena le crisi sociali ma rifiuta risolutamente di percepire il cambiamento in contesti che non siano privati e emotivi. Cinema di condomini periferici, osterie, trattorie, incontri domenicali, ma soprattutto cinema di interni claustrofobici, cinema che si chiude in casa come in un fortino assediato, nelle stanze piene di oggetti del melodramma familiare che sommerge i protagonisti con immagini di oppressione pronte a capovolgersi negli spazi esplosivi dell’isteria latente, nel momento in cui rivela il tentativo di fermare il tempo e di esorcizzare gli aspetti più inquietanti della modernizzazione.

IL PASSAGGIO ALLA COMMEDIA

Il passaggio alla commedia – anche se non mancano segnali e sintomi nelle opere precedenti – avviene soltanto con Divorzio all’italiana (1961), che nell’attività del regista inaugura una nuova e inattesa stagione. Il rovesciamento di fronte non potrebbe essere più totale. Il mito della legge è visto tutto in negativo, come in una fotografia capovolta, in cui le norme giuridiche sono mezzi per assecondare la strategia del desiderio. La famiglia diviene lo scenario di una congiura permanente, il territorio dell’appostamento e della sorpresa, della macchinazione e dell’obliquità. Il matrimonio è l’avamposto di una guerra di posizione in cui l’apatia e il sospetto sono chiamati a inscenare i rituali asfittici di una istituzione corrosa dall’interno, svuotata di significato.

Divorzio all’italiana

Sin dalle prime immagini in cui il barone Cefalù guarda fuori dal finestrino l’accecante pianura e rievoca le serenate del Sud, le calde, dolci, snervanti notti della Sicilia, il film trova la sua folgorante caratterizzazione nello scenario storico, geografico, antropologico. Ma il ritorno in Sicilia è ora motivo di una nuova scoperta, di un rapporto completamente diverso. La «Sicilia frontiera sociale» cede, come ha scritto Sciascia, alla «Sicilia frontiera passionale». La coincidenza assoluta con lo scenario siciliano non circoscrive il film all’ambito regionale, ma è anzi il tramite per il suo allargamento nazionale, per assicurarne il significato universale, dal momento che Germi è convinto che in Sicilia tutti i difetti, le remore, gli errori della società italiana si ingigantiscono e si esasperino. La Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana, una specie di palcoscenico in cui una vicenda reale ma paradossalmente articolata trova gli elementi di paesaggio e di clima che servono a esasperarla.

La coerente “negatività” del film non potrebbe essere più intransigente e compatta, tutta risolta nella trasfigurazione grottesca e nell’umore sarcastico con cui mette in scena l’ossessione erotica del protagonista, dando al suo delirio distruttivo la forma di una allucinazione prolungata all’infinito. La forza della rappresentazione deve molto all’intreccio vivacissimo dei piani narrativi, degli imprestiti e delle citazioni dei generi, dall’horror al romanzo d’appendice, dall’avventura coloniale al melodramma passionale: dall’orrorosa macelleria dei sogni a occhi aperti con cui il barone vagheggia l’eliminazione della moglie alle lettere di Carmelo Patanè che rievocano la romantica rêverie tra i ruderi, l’eroica epopea del podismo forzato di El Alamein, il trasalimento sotto il cappuccio nella festa dei ceri, via via, fino all’episodio di Mariannina Terranova, una sorta di esemplare cause célèbre presentata in chiave di melodramma, quasi un feuilleton nel feuilleton.

ANCORA LA SICILIA

Sedotta e abbandonata (1964) – di nuovo Sicilia, ma ancora più primitiva, barbarica, violenta – riprende la forza distruttiva, negativa, rabbiosa del film precedente, ma esaspera ancora di più  i toni e moltiplica i personaggi. Se il ritmo malizioso e grottesco di Divorzio all’italiana diventa una sarabanda scomposta, esagitata, convulsa, le apparizioni dei singoli personaggi si inanellano una sull’altra in un frenetico passaggio del testimone, attraverso cui vengono alla ribalta la giovane Agnese, l’inquieto oggetto del desiderio insieme disponibile e reticente; Peppino Califano, lo squallido fidanzato della sorella; il figlio Antonio, scimunito e vigliaccone; don Vincenzo Ascalone, l’urlante tiranno domestico, l’incontenibile padre-padrone ossessionato dall’onore; il barone Rizieri; i genitori di Peppino; gli avvocati delle due parti; il maresciallo Potenza che sulla carta geografica copre la Sicilia con le mani e il carabiniere Bisigato che crede di essere a Treviso. La macchina da presa di Germi – che sembra aver appena scopertolo zoom con le sue possibilità di accorciare le distanze – sta addosso ai personaggi, ne sottolinea la chiassosa fisicità, ne accentua la mostruosità ripugnante, insopportabile, ne raffigura le allucinazioni e gli incubi nei rondò capricciosi e immaginifici di un macabro balletto. Svaria dalla satira alla parodia e alla farsa, senza mai perdere di vista il feroce accanimento del quadro d’insieme, che suscita l’applauso di un maestro della commedia avvelenata come Billy Wilder.

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