Raza, la crociata di celluloide del Caudillo e la retorica della propaganda

by Orio Caldiron

Si è tornato a parlare recentemente dei misfatti della censura franchista pronta a cancellare il sesso, anche il più innocente, nella stampa e nei rotocalchi, mentre nessuno ha ricordato i trascorsi cinematografici del Generalissimo Francisco Franco.

Nello scenario del totalita­rismo novecentesco, se Germania e Unione So­vietica considerano il cinema lo strumento privilegiato della persuasione occulta, la cassa di risonanza dei rituali illusionisti­ci in cui le dittature si mettono in posa, Spagna e Italia sembrano aver fa­tto un uso meno clamoroso dell’ “arma più forte”. Nel cinema franchista i film di propaganda sono pochissimi, così come avviene nell’ ideologicamente vicino regime fascista, che diffida della fiction politica ma può contare sul bom­bardamento capillare dei cine­giornali Luce. Le cineattività spagnole, i Noticiarios y Docu­mentales Cinematográficos che tutti chiamano No-Do, svolgono una funzione analoga. Ma repri­mere dev’essere stato sempre più importante che promuovere, se all’indomani della guerra civile le autorità fran­chiste si preoccupano soprattutto di insediare le commissioni di censu­ra, destinate a farsi la fama di irriducibile severità.

IL PIÙ IMPORTANTE RAZA

Nello stesso periodo riprende però anche la produzione di lungometraggi realizzando un gran numero di commedie e di melodrammi. Il titolo più importan­te del periodo è Raza (1942) di José Luis Sáenz de Heredia, una sorta di ma­nifesto del franchismo che a di­spetto dell’enorme risonanza non fa scuola e resta un’eccezione irri­petibile, un discusso classico del cinema di propaganda a cui si affida l’immagine retorica della guerra civile vista dalla parte dei vincitori. Il filmè tratto dal libro omonimo di Jaime de An­drade, pubblicato nel 1941 e subito portato sullo schermo. Non ci sarebbe nulla di eccezionale se il no­me dell’autore – all’epoca non lo sapeva quasi nessu­no, oggi è di pubblico dominio – non fosse lo pseudonimo di Francisco Franco. Il prodotto narrati­vo assai modesto, a metà tra romanzo e sceneggia­tura, non rivela soltanto le mediocri qualità letterarie del dittatore ma fa capire che sin dall’inizio il progetto era stato pensato con una destinazione cinematografica. Nella saga familiare di Raza si ritrovano gli stereotipi dell’onore e le rivalità fratricide di uno dei film prefe­riti di Franco, Beau geste (1939) di William A. Wellman, dove i tre fratelli Geste, Beau (Gary Cooper), John (Ray Milland) e Digby (Robert Preston) si arruo­lano nella Legione straniera per evitare di essere ac­cusati del furto di uno zaffiro di grande valore. Qual­cosa dello stile artificioso e solenne del vecchio film hollywoodiano sembra rimasto nel libro del Genera­lissimo che non avrebbe certo apprezzato Io, Beau Geste e la legione straniera (1977), la dissacrante pa­rodia di Marty Feldman di quasi quarant’anni dopo con l’irresistibile scena del fortino difeso dai cadaveri.

LA STORIA DI UNA FAMIGLIA

All’indomani della morte del dittatore, avvenuta nel 1975 non è mancato chi ha visto nella storia della no­bile famiglia Churruca, dalla fine dell’Ottocento agli anni infuocati della guerra civile, una sorta di transfert autobiografico di Franci­sco Franco, figlio di un oscuro fun­zionario navale, impegnato in una fantasia di sublimazione autonobilitante. La fru­strazione della modesta famiglia di provenienza si capovolgerebbe nella irresistibile volontà di pro­mozione, secondo il modello psi­cologico per cui il complesso d’in­feriorità, ribadito dalle frequenti umiliazioni e nelle imbarazzanti ti­midezze, si ribalterebbe nell’iper­trofia dell’io, deciso a imporsi in una forma esasperata e abnorme sul mondo circostante. Se l’essere nato nel 1892 a El Ferrai, un piccolo porto decentrato della Galizia, nel periodo che precede la dissoluzione dell’impero coloniale spagnolo, non può che predisporre il gio­vane Franco a sognare come tanti coetanei l’avventura marinara quale trampolino di lancio per la sua realizzazione personale, il ca­rattere del padre donnaiolo e ubriacone accentua la drammatica crisi familiare e apre più di uno spi­raglio sulla personalità del futuro generale fedele alla rigida disciplina del dovere militare. Ma gli spettatori dell’epoca ignorano il ruolo di Franco nella realizzazione del film, in cui vedono la rievocazione della guerra civile spagnola, momento di fonda­zione del regime franchista, secon­do una prospettiva di legittimazio­ne che ne fa il compimento mille­nario del destino della razza spa­gnola. Nel corso della guerra, il tema era stato al centro della propaganda nazionalista, ma la trovata del film consiste nell’inserire gli avvenimen­ti recenti nello scenario più ampio della storia patria.

IL PARADIGMA RELIGIOSO

Scomparso l’ammiraglio Churruca nella guerra con gli Stati Uniti che segna il collasso dell’impero coloniale spagnolo, il modello familiare è al centro del film con le figure contrapposte di José, il figlio buono, e di Pedro, il figlio cattivo. Il pri­mo è il protagonista, l’eroe positivo che riprende la tradizione dell’almogavar, il soldato coraggioso a cui il simbolo della croce che si delinea sul muro assicura l’investitura politico-religiosa dell’e­letto pronto a morire per la patria, nel momento in cui esercito e altare so­no più che mai solidali. Pedro, il figlio-cattivo, è l’antagoni­sta che rinnega la tradizione, destinato a trovare posto tra i politicanti del Fronte Popolare mossi soltanto dall’am­bizione personale. Quando nel 1936 scoppia la guerra civile, José è un ufficiale dell’esercito franchista, mentre Pedro continua a rappresentare l’avversario che si schiera in campo repubblicano. Ma la contrapposizione assoluta s’incrina, quando accu­sato di tradimento dai suoi vecchi compagni – una sorta di corte dei mi­racoli di brutti e cattivi – Pedro pronuncia in primo piano un lungo discorso in cui ammette il suo errore. So­lo allora può convertirsi e redimer­si, morendo fuori campo dopo ave­re preannunciato la vittoria fran­chista, evocata in un rapido mon­taggio di documenti d’epoca. La rappresentazione del fratello-nemico, lo spagnolo che ha com­battuto dall’altra parte, quella dei comunisti venuti da lontano per farli precipitare nella barbarie, è fonda­mentale nella strategia di riconci­liazione nazionale che il regime ri­serva agli oppositori pronti a redi­mersi con la conversione. Il para­digma religioso è anche qui esplici­to nel sottolineare il meccanismo attraverso cui il regime, che si di­stinguerà per la feroce repressione fisica degli avversari, mostra sullo schermo di tendere la mano ai vinti nel momento in cui, ammettendo esplicitamente il proprio errore, sembrano pronti a superare le di­stinzioni risolvendosi nell’unità na­zionale. Il sinistro paradosso è che, nell’intreccio politico-religioso alla base del franchismo, la redenzione più efficace passa per l’abiura e la morte. La sfilata della vittoria del 19 mag­gio 1939 conclude il film saldando insieme la realtà storica e l’affabulazione romanzesca. Mentre le truppe vincitrici sfilano trionfanti per le strade di Madrid, riappaio­no per un mo­mento i protago­nisti della saga familiare per dire alle nuove generazioni: “È lo spirito di una razza”.

LA PRIMA UFFICIALE

La prima di Raza avviene il 5 gennaio 1942 al Palacio de la Mùsi­ca, la sala più importante di Ma­drid, con enorme successo. Salutato come il monumento cinematogra­fico della nuova Spagna, è ri­proposto in numerose occasioni pubbliche prima di essere distribui­to all’estero. Si era pensato sin dall’inizio a José Luis Sàenz de Heredia, il regi­sta dall’ineccepibile professionalità che offriva la garanzia politica di essere cugino di José Antonio Pri­mo de Rivera, il fondatore della Fa­lange, e la garanzia cinematografi­ca di avere lavorato con il repubbli­cano ma prestigioso Luis Buñuel ai tempi della Filmofono. Nel ventennio successivo prosegue brillantemente la sua carriera di autore superpremiato dall’ufficialità a cui nel ’50 si chiede di sfumare il rozzo impianto ideologico nella versione più corta intitolata Espíritu de una raza. Non sorprende che più tardi ci si rivolga ancora a lui per realizzare il documentario su Franco per la manifestazione dedicata ai venticinque anni di pace. Il cortometraggio cresce per strada perché nel vi­sionare il sovrabbondante materiale d’archivio, il re­gista comincia a pensare a un lun­gometraggio in cui il capo di stato spagnolo non sia rappresentato nell’immagine consueta di militare e di stratega, ma sia visto soprat­tutto come uomo.

L’IMMAGINE PRIVATA

Se il dittatore è onnipresente nella vita degli spagnoli, la sua immagi­ne privata è sempre rimasta in om­bra. Franco, ese hombre (1964), presentato il 12 novembre 1964 al Palacio de la Mùsica come il precedente, è un altro film-scommessa in cui il nome del regi­sta si associa a quello del Caudillo, non più come ispiratore segreto di un’affabulazione allegorica, ma co­me protagonista di una ricostruzio­ne biografica, incaricata di svol­gere un ruolo importante nella autorappresentazione del regime e della sua massima autorità. Nella tradizione del film di montaggio, brani di cineattualità, filmati televisivi, foto­grafie, pagine di giornali, si alternano a interviste e sequenze girate per l’occasione, mentre la voce off scandisce l’arco narrativo. Se la visione di Madrid – colta in cinemascope e in technicolor nei suoi aspetti di gran­de città moderna – apre il film, l’appari­zione del capo dello stato intervistato dallo stesso regista lo conclude. La guerra civile è accennata solo di sfuggita per intrattenersi invece sui momenti fondamentali della biografia del Caudillo, intrecciandoli e alternan­doli allo scenario più vasto della storia della Spagna nel contesto in­ternazionale. Certo, tutto comincia con il 1892, l’anno della nascita del dittatore, ma in realtà la fine dell’impero coloniale è il vero scenario di partenza della rievocazione agiografica, impegnata non a sve­lare “l’enigma Franco”, ma piut­tosto a delineare la formazione del mito.

LA RETORICA DELLA PROPAGANDA

Non si entra nel merito degli avvenimenti cruciali della guerra civile, quasi a unificare a posterio­ri i milioni di spagnoli che sono morti da una parte e dall’altra. Se la reticente rappresentazione della guerra, privata di ogni contenuto politico, annulla le dif­ferenze e cancella le atrocità del conflitto e le repressioni del dopo-conflitto, le sequenze dedica­te alla seconda guerra mondiale affrontano il problema centrale della neutralità spagnola, della costante oscillazione tra la gratitudine nei confronti della Germania e dell’I­talia, le potenze dell’Asse che con il loro intervento hanno contribui­to all’affermazione del franchi­smo, e le avance nei confronti de­gli alleati, tese a assicurarsi un posto nel nuovo assetto europeo. Nessun accenno all’apparato militare e poliziesco su cui si fonda lo stato spagnolo, che proprio negli anni Sessanta delega l’economia alla lobby dei tecnocrati che assecondano la crescente industrializzazione, forse l’aspetto più moderno di una società arcaica e confessionale impegnata a contrastare le rivendicazioni autonomistiche della Catalogna e dei Paesi Baschi.

L’ASSOLUTA MANCANZA DI CARISMA

L’intervista conclusiva con Franco sottolinea a più riprese le motivazioni della cro­ciata, che avrebbe contribuito a salvare la Spagna dallo spettro del comuni­smo, facendola diventare un paese moderno accanto agli altri stati eu­ropei e consegnando alle nuove generazioni la rinnovata consape­volezza del popolo spagnolo, final­mente considerato nel mondo all’altezza delle sue qualità. Ma l’appuntamento fondamentale rischia para­dossalmente di mancare il bersa­glio. Nell’economia del film do­vrebbe rappresentare il momento di più esplicita rivelazione dell’u­manità promessa dal titolo. In real­tà, non solo il messaggio resta ge­nerico, ma documenta l’assoluta mancanza di carisma del protago­nista della lunga cavalcata attraver­so la storia del passato recente, un uomo che a sessantasei anni sembra più vec­chio della sua età, solo e impaccia­to nel grande spazio vuoto della sa­la di proiezione di El Pardo. Il cinema, spietata macchina della verità, sembra farci dubitare, al di là delle parole altisonanti del com­mento, che il futuro della Spagna possa poggiare sulle deboli spalle di un uomo di cui, dopo quasi cento minuti di immagini e di documen­ti, non sappiamo quasi nulla.

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