Sospesa tra il sogno e la realtà, la Signorina Grandi Firme di Gino Boccasile

by Orio Caldiron

Soltanto nelle tavole dell’inizio anni trenta comincia delinearsi nella volumetrica sinuosità delle figure l’aggressività di un’impronta personale se non di un vero e proprio stile. Ma senza la Signorina Grandi Firme per Gino Boccasile – nato a Bari il 14 luglio 1901, scomparso a Milano il 10 maggio 1952 – non sarebbe mai arrivata l’enorme popolarità che gli ha consentito di lasciare un segno nel costume nazionale.

Il merito va condiviso con Cesare Zavattini che nel 1937 ha da poco lasciato Rizzoli per passare a Mondadori, insediandosi nell’ufficio di Piazza San Babila come direttore dei periodici della casa editrice. Il suo primo colpo da maestro è di rilevare “Le Grandi Firme”, il quindicinale di novelle diretto da Pitigrilli, facendolo diventare settimanale e imponendo una copertina disegnata al posto delle solite fotografie di dive. Non ha bisogno di cercare a lungo il disegnatore, perché ce l’ha sotto il naso, prendono tutti i giorni il caffè assieme. È appunto Boccasile, di cui aveva notato la pubblicità per una nota marca di calze di seta, dove spiccano le gambe femminili destinate di lì a poco a diventare famose.

LA RAGAZZA DELLA COPERTINA

La nuova formula assicura alla rivista tirature clamorose, mentre la Signorina Grandi Firme comincia il percorso trionfale che ne fa ancora oggi il contrassegno dei sogni, dei desideri, delle frustrazioni di un’epoca. Nella settantina di copertine disegnate per il settimanale la bravura di Boccasile è fuori discussione. Non solo perché è abilissimo nel far coesistere la concreta puntualità dei dettagli attendibili e il sognante irrealismo dell’immagine in cui si riflette lo sguardo desiderante dei lettori. Anche perché nelle camminate, nelle posture, nella debordante energia dei corpi che sembrano uscire fuori dai vestiti, le sue ragazze non sono soltanto modelli di procace spregiudicatezza erotica, ma nel gioco illusionistico del disegno diventano vivacissimi esempi di vitalità. Se il segreto del grande successo continua a sfuggire, si può capire come la miscela di malizia e sessualità, sia pure in dosi contenute, risulti esplosiva in un’epoca che è fin troppo facile immaginare nel segno della rimozione.

Sospesa tra il sogno e la realtà, tra il rilievo sociologico e l’utopia maschilistica, la Signorina Grandi Firme si esibisce nello spazio magico della copertina come nel suo teatrino personale, nel palcoscenico privilegiato della sua eterna performance seduttiva. Sdraiata con le gambe in aria e la cucitura delle calze in bella vista, si appoggia sui gomiti mentre dal telefono sul pavimento risponde all’annuncio del giornale che cerca una diva. Calzoncini corti, canotta bianca, zaino in spalla con macchina fotografica incorporata, si aggrappa all’esile arbusto nella roccia a strapiombo. Abbracciata al cuscino, è inginocchiata accanto alla foto di Robert Taylor coperta di baci di rossetto. Supersportiva, in gonnellino plissettato e t-shirt colorata partecipa ai campionati femminili lanciando il giavellotto. Al mare si spalma l’olio solare comodamente seduta sul bagnante coperto di sabbia con solo i piedi in fuori. Seduta sulla panchina a gambe incrociate, sfoglia compunta la rivista di moda senza accorgersi che l’abito bianco si sta macchiando di vernice. Impeccabile nella mise da tennista, è colta di sorpresa dalla pallina che le centra l’occhio. Spettatrice della partita di pallone, le tenta tutte per richiamare su di sé l’attenzione dei calciatori. Al mare cerca inutilmente di fermare l’ombrellone trascinato via da un colpo di vento. Appoggiata all’albero con incisi due cuori, piange tenendo in mano la lettera tutta stropicciata di lui. Sta pescando, ma alla lenza ha abboccato soltanto il biglietto galante di un ammiratore intraprendente. Maglietta a righe e corta gonna svolazzante, guarda smarrita la bicicletta che è andata a sbattere sul paracarro che indica “Hollywood 6812 Km”.

BENVENUTA A CINECITTÀ

Nella copertina del 21 aprile 1938 incede con pose da diva verso la macchina da presa circondata dalla troupe esultanti e dai fotografi impazziti, calpestando i mazzi di fiori mandati dai maggiori registi, mentre sullo sfondo si legge: “Benvenuta a Cinecittà”. Il concorso intitolato “Esiste la Signorina Grandi Firme?” si propone di rintracciare se non proprio la ragazza che ha ispirato il disegnatore almeno quella che più le assomiglia. Annunciato sin dalla copertina, il premio è naturalmente quello di essere chiamata a Cinecittà per interpretare un film, mentre altri premi sono previsti per i lettori che inviano le foto delle loro amiche. Ma la Signorina Grandi Firme esiste o no? Neppure la canzone di Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi, portata al successo dal Trio Lescano tra la primavera e l’estate di quell’anno, scioglie il mistero della chiacchierata signorina che assomiglia a tutte le ragazze di allora ma al tempo stesso non si sa se esiste davvero: “Signorina Grandi Firme/con il tuo stile novecento/hai portato turbamento in ogni cuor!/ Signorina Grandi Firme/con le gonne sempre al vento/tu dirigi il movimento dell’amor!/Le ragazze d’oggi giorno/son tutte come te,/basta sol guardarsi intorno,/mamma mia quante ce n’è!”.

DALLA CARTA ALLO SCHERMO

La canzone rientra nel lancio del film Signorina Grandi Firme, di cui Zavattini scrive il soggetto, prendendo il via dalla redazione di un giornale. Il direttore ha concesso ventiquattro ore di tempo per trovare un’idea che valorizzi la copertina: “La città è invasa dalle macchine fotografiche: piccole macchine ultramoderne e vecchie macchine con il treppiede. È una ridda di fotografie, di pose, di sogni: dall’esercito delle donne di servizio sui bastioni che si accaparrano tutti i fotografi ambulanti, alle cassiere dei bar, dalle balie con le carrozzelle allineate come un reggimento alle studentesse. L’obiettivo diventa l’ossessione dominante. Ogni donna cammina con la dolce paura, con la dolce speranza di vedersi sbarrare il passo da una macchina fotografica”. Non serve ripercorrere per intero il soggetto zavattiniano per capire che è una di quelle favole mediologiche che il grande scenarista si divertiva a scrive negli anni della sua fervida stagione milanese prima di approdare a Roma per dedicarsi completamente al cinema. Sarà sufficiente ricordare lo snodo fondamentale della scoperta quando la notizia si sparge come un baleno: “Abbiamo trovato la Signorina Grandi Firme”con il Produttore Cinematografico pronto a lanciarla in un film, per arrivare alla conclusione: “La macchina da presa si avvicina alla copertina del giornale che diventa tutta trasparente di stelle e di comete. La copertina si anima in pochi secondi di cartone animato a colori. La Signorina Grandi Firme se ne va lasciando libero il riquadro della copertina nel quale lui e lei che si baciano”.

Il film così come l’avevano progettato Zavattini e Amato non si farà perché il 6 ottobre 1938 “Le Grandi Firme” per decisione della censura fascista cessa improvvisamente le pubblicazioni, mandando all’aria il castello di carte costruito attorno alla intraprendente signorina e al suo concorso. Quando l’anno dopo esce con il titolo Bionda sotto chiave,è irriconoscibile. Completamente rimaneggiato dal regista Camillo Mastrocinque, che non ha ancora finito di scrivere il copione mentre già le macchine girano nel Teatro 4 di Cinecittà, il film non convince nessuno, neppure l’autore del soggetto che sul “Tempo” del 21 settembre 1939 scrive testualmente: “Zavattini se ne lava le mani, dice che il soggetto è una cosa, dieci paginette dattilografate, e il film un’altra. Ma sarebbe ora che questo giovanotto non si accontentasse d’incassare i biglietti da mille dei suoi soggetti e si preoccupasse di seguire la sua creatura, dando una mano al regista e soprattutto agli sceneggiatori. Invece incassa i quattrini e scompare nella notte sperperando il denaro in orge e follie”.

Se sulla copertina di “Le Grandi Firme” era stata la protagonista assoluta, quando la ragazza prosegue la sua vita disegnata su “Il Milione”, “Il Settebello” e “Ecco Settebello”, che arrivano fino all’inizio degli anni quaranta, non è più sola ma accompagnata dal partner maschile in scene di ordinaria casalinghitudine, sempre inseguita dagli sguardi maschili. Nello stesso periodo ritorna a indossare le calze “Mille Aghi” della ditta Franceschi in una serie di pubblicità non molto diverse da quelle che erano state probabilmente all’origine della sua fortuna. Non disdegna neppure di fare da testimonial alle pastiglie di mugolio alla clorofilla e alle pillole della salute di Santa Fosca, al Liquigas che va dappertutto e alla Miscela Bricco che, ahimè, sostituisce il caffè. La reincarnazione più persuasiva sembra quella che avviene sulle pagine di “Grazia”, dove con la consueta esuberanza reclamizza gli stampati di seta, le stoffe di canapa, i vestiti alla marinara, la moda per le nozze, gli abiti per il finesettimana, i grandi cappelli, le tute per l’orticoltura, i fazzoletti milleusi.

IL BARATRO DELLA GUERRA

Sarebbe bello che l’omaggio a un disegnatore di talento come Gino Boccasile avesse un lieto fine. Ma in questo caso non è proprio possibile. Se nel corso degli anni non aveva mancato di contribuire alla propaganda politica del regime e di sostenere le sciagurate leggi razziali, quando nell’Italia divisa in due del ’43 nasce la Repubblica Sociale, Boccasile si trasferisce a Salò, dove diventa il cartellonista di punta del nuovo regime affacciato sul baratro della guerra. Il piccolo museo degli orrori che ci viene incontro nell’instancabile attività del tenente della SS italiana è una repellente galleria in cui si tocca il fondo con sorridenti soldati tedeschi che ci tendono la mano rassicurandoci: “La Germania è veramente vostra amica”, scimmieschi neri americani aggrappati alle bianche statue classiche, ragni rosso sangue che minacciano donne e bambini, mani scheletriche del nemico che incombono sugli ignari ragazzini a scuola, marinai della Decima Mas che ci difendono dalla rossa tigre in agguato.

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