Teorema e la profezia marxista di Pasolini. Il contagio borghese ha omologato tutte le classi

by Gabriella Longo

Non così diverso dev’essere stato il perpetuo riparare di Pasolini fra le baracche romane, dall’esilio di Euripide in Tracia. Quest’ultimo, lasciava il mondo con Le Baccanti, segnato dal profondo dégoût per la fine dell’epoca d’oro ateniese; Pasolini scrisse il romanzo e diresse quasi in contemporanea il film Teorema, da intellettuale che qualche anno prima aveva pianto sulle ceneri di Gramsci per il destino della sua epoca.

L’autore è “una mezza calzetta, vive nel caso e nel rischio”, stigmatizzava Pietro, l’artista del film di Pasolini, mentre sulle finestre di un casale della provincia milanese comparivano le scritte azzurre “abbasso gli stati, abbasso le chiese, viva chi dipinge”, cogliendo parte dello spirito anarcoide sessantottino.  Nello spazio senza tempo dei suburbia di Milano, si sviluppa una storia che riprende quella di Euripide, in cui l’arrivo dell’elemento perturbante identificato con uno straniero, mina alle fondamenta dell’ordine costituito. Pasolini, in perenne esercizio funambolico fra termini dialettici, è alla catastrofe scatenata dall’irrompere del Dioniso euripideo che si appella per dare forma al biografico dissidio fra ragione e religione, convivendo in lui, contemporaneamente, l’ideologia razionalista e un sentire religioso legato al cattolicesimo contadino del Friuli.

Alla base del suo teorema, che ha di certo nostalgia d’una regola, ci sono sempre e soltanto molte più domande che risposte. Chissà, dunque, se c’è ancora spazio per il sacro nel Sessantotto, chissà se il Dioniso che tornava a Tebe ha ancora lo stesso potere di mettere una parrucca alla ratio di Penteo e di portarlo vestito da Menade fra gli invasati del Citerone. L’incarnazione del dio avviene nel film di Pasolini nell’ambito di un contesto borghese, rappresentato significativamente da una famiglia ammalata di languore, ripresa nella stanchezza delle sue leggi e dei suoi ruoli consumati, quelli del “salotto buono”, tipico di anche tanto teatro. L’irruzione dell’“ospite”, non è un evento meno folgorante che nell’archetipo euripideo, ma quel dio misterioso e contraddittorio il cui culto aveva trovato la sua fortuna in oriente, è identificato da Pasolini con un giovane dagli occhi azzurri ma fuori dalle classi, senza seguito, senza provenienza, senza appartenenza, senza fedeli, poiché “la sua diversità consiste, in fondo, soltanto nella sua bellezza”, come recita una frase dell’omonimo romanzo. Il dio pasoliniano, legge un manuale di medicina ma è attratto dal Rimbaud in un’edizione economica, dissacra l’esempio evangelico di cristo ma al tempo stesso, coerentemente con la mitopoiesi cristiana e dionisiaca, il suo stesso meraviglioso corpo diventa la carne di cui la famiglia che lo accoglie si ciba. Carnalità che è, poi, profondamente rimarcata da un racconto che spesso procede per sineddoche, dall’insistito soffermarsi sull’azzurro dei suoi occhi sino alle infinite angolazioni che ne accentuano i tratti virili, tutti i segni del soma di cui Pasolini è stato l’indiscusso maestro.

Ma dall’horror vacui in cui sprofonda la casa al momento della partenza di questo dio occasionale, riempito dalla lascivia decadente di Lucia, dal silenzio imperturbabile in cui si chiude Odetta, dal delirio artistico di Pietro, si salva non a caso solo la domestica Emilia, assurta allo stato di santa perché ultima testimone di quel mondo agricolo ove Pasolini non smette di scorgere verità e purezza. Mentre quei suoi padroni perdono dio, solo fra le ortiche e le galline il sacro è ancora possibile, non nel resto del mondo industrializzato corrotto irrimediabilmente dal contagio borghese, che come un genocidio di massa, ha sterminato le differenze, e ha omologato a sé tutte le altre classi sociali.

“Il vero protagonista di questa storia resta il vostro padrone”, dice l’intervistatore dell’inserto documentaristico ad inizio film rivolgendosi ad un gruppo di operai fuori dalla fabbrica, che vorrebbe essere quella che il capofamiglia Paolo, a conclusione, lascerà ai suoi lavoratori per scappare in una cornice desertica. È la profezia marxista che si compie: l’operaio che si sottomette al borghese capitalista finisce per desiderare ciò che lui desidera, finanche a prendere il suo posto in una catena infinita e concentrazionaria, dalla quale scompare evidentemente la necessità della rivoluzione. Ed è forse per questo che Pasolini rileva i segnali funebri del sacro, che resiste a stento e soltanto come forma peregrina e marginale, così come la figura dell’autore, che citando ancora Pietro “non vale niente, si contorce e striscia per sopravvivere” perché non riesce a trovare niente che non sia già stato detto e che, sulle note di una perenne Messa da Requiem, ha finito per urinare simbolicamente sull’arte, azzurra come gli occhi di quel dio senza nome.

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