Trent’anni senza Cesare Zavattini, autore dei mondi possibili

by Orio Caldiron

Scrittore, giornalista, pittore, poeta, autore radiofonico e teatrale, soggettista e sceneggiatore cinematografico, Cesare Zavattini – nato a Luzzara, Reggio Emilia, il 20 settembre 1902, muore a Roma il 13 ottobre 1989 –  è una delle figure più significative del Novecento. Ma quanti Zavattini ci sono?

Sullo sfondo della società italiana nel momento della progressiva espansione dell’industria culturale, la sua è stata una presenza attivissima, sospesa tra l’agitata esuberanza dei progetti e l’interesse tutto particolare per le modalità della comunicazione. Zavattini uno e molteplice dalle clamorose prove degli inizi (Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo) alla sperimentazione senza rete di Non libro più disco, dalla ricchezza della diaristica di cinema e di vita alla sterminata attività d’ideazione cinematografica.

Il nodo segreto lo si può forse cogliere nel rapporto dialettico con la figura dell’intellettuale, nella volontà di andare continuamente al di là delle convenzioni e dei limiti della scrittura e insieme nella fedeltà al rigore della pagina, alla forza decisiva della parola. Nella sua scrittura epifanica, in cui tutto è “qui e ora”, si riflettono la crisi della rappresentazione, l’ansia parossistica di dominare la realtà e insieme lo smarrimento di chi ha la coscienza della crisi e cerca di uscirne attraverso la provocazione. La sua tenace e inappagata voglia di cinema, la sua frequente dichiarazione di essere pronto al grande salto, il progetto di passare alla regia che affiora a più riprese e viene continuamente rimandato, configurano una precisa intenzionalità autoriale che si rivela un nodo problematico di grande ricchezza.

De Sica e Zavattini

La scoperta del cinema avviene alla fine degli anni venti, durante l’esperienza esaltante della «Gazzetta di Parma», in cui si avvertono gli echi delle avanguardie storiche, soprattutto del postfuturismo, e gli umori popolari. Il mito di Charlot è fondamentale in tutto il periodo in cui il giovane Zavattini sbeffeggia gli aspetti più esteriori dell’americanismo, assunto come modello delle contraddizioni della società di massa che si viene delineando.

La novità dei suoi corsivi, spesso brevi o brevissimi, sta soprattutto nella scrittura che fa saltare la superficie della realtà attraverso il surreale e il grottesco, mette a nudo, con strumenti umoristici e sottolineature parodiche, i meccanismi più profondi, le incongruenze e le assurdità del mondo moderno. Si moltiplicano i riferimenti al cinema nelle finte corrispondenze che dal ’30 al ’34 pubblica con vari pseudonimi su «Cinema Illustrazione»: una trasferta nei luoghi deputati dell’immaginario hollywoodiano che è insieme l’incarnazione del sogno del cinema, in cui il futuro soggettista comincia a cercare se stesso. Nella loro svagata freschezza, le cronache sono attraversate dal gioco di specchi tra la nascente industria culturale milanese e la strapotente industria culturale americana, favole sul cinema fiorite negli anni dell’affermazione dei rotocalchi popolari, nei quali lo scrittore lavora a tempo pieno nella sua febbrile stagione milanese.

Il decennio che va dagli anni quaranta all’inizio dei cinquanta è un periodo particolarmente intenso e fecondo per lo scrittore di cinema. Zavattini è ormai sceneggiatore a tempo pieno, forse il più attivo in un momento di singolare tensione del cinema italiano, in cui si cominciano già a riconoscere le prime avvisaglie del profondo mutamento destinato a esplodere, tra continuità e rottura, nel dopoguerra. Il periodo – pur così ricco di risultati importanti, dal rapporto privilegiato con De Sica, a cui si devono film memorabili come I bambini ci guardano (1944), Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951), Umberto D. (1952), alle collaborazioni con Visconti (Bellissima), Blasetti (Prima comunione), De Santis (Roma ore 11), Lattuada (Il cappotto) e gli altri registi di una stagione irripetibile del cinema italiano – è anche quello in cui Zavattini prende atto con maggiore consapevolezza dell’ambiguità che caratterizza la situazione dello sceneggiatore. L’insoddisfazione è profonda. Se ha il suo peso anche il passaggio da Milano a Roma, il trapianto dal mondo della carta stampata con le sue regole al mondo del cinema con le sue slealtà, la crisi ancora prima che professionale è esistenziale.

Nel riesame del cinema che lo scenarista viene allora svolgendo, il senso del terremoto in atto non è meno intenso. Si viene precisando la poetica del «durante», l’immagine di un cinema in grado di farsi «raccontatore di noi stessi», che tende al diario come «all’espressione più completa e più autentica». Nel corso di una riflessione appassionata e battagliera insiste a più riprese sulle inespresse potenzialità del cinema.

La macchina da presa dovrebbe essere usata come una lampada per analizzare le cose davanti a noi, rappresentare ciò che sta accadendo, facendo sì che la conoscenza diventi meraviglia: «Il cinema è veramente un rapporto dell’occhio con le cose viste. L’immaginazione e l’occhio sono proprio la chiave del mezzo tecnico. La macchina quindi non fotografa, non deve fotografare ciò che abbiamo pensato, ma fotografa ciò che pensiamo nell’atto stesso in cui vediamo. E quindi un modo di servirsi di un mezzo ben differente dalla letteratura, e che ha dei punti di contatto con la pittura, proprio per questo rapporto assoluto tra l’oggetto e la sua espressione».

Non si può dimenticare che la sua foltissima filmografia è soltanto la punta dell’iceberg, delle centinaia di soggetti e delle migliaia di pagine di interventi, di postille, dichiarazioni, appunti, lettere, testi, diari a cui è affidato l’intreccio d’impegni e di progetti che anima per tanti anni la sua profonda carica innovativa, la sua inattesa capacità di folgorazione. Il viaggio nei mondi possibili, in cui si inseguono e si sovrappongono il quotidiano e l’eccezionale, è al fondo dell’intera attività dello scrittore di cinema dai grandi film del dopoguerra ai temerari progetti-bilancio dell’ultimo periodo, vertiginosi scandagli nelle profondità dell’io, dove l’intero universo è racchiuso in un istante di vita.

La veritàaaa (1982) – realizzato a ottant’anni come soggettista, sceneggiatore, regista, e interprete – resta il suo primo e ultimo film di cineasta totale. Il progetto, che va in porto all’interno di un ripensamento complessivo del suo itinerario di scrittore e di uomo di cinema, è elaborato, ripreso, modificato e aggiornato nel corso di un ventennio. Summa della riflessione poetico-politica di Zavattini e della sua appassionata tensione morale, il film è anche la riproposta della frammentarietà come metodo di ricerca, poetica del non-film e  utopia dell’anti-spettacolo, con il gioco pirotecnico di sberleffi e di trasgressioni che fanno parte integrante di un autore aperto sino all’intemperanza e insieme ossessivamente fedele alle sue ragioni di fondo.

Singolare film testamentario, contraddittorio e vitalissimo, La veritàaaa è una sorta di sconcertante messaggio nella bottiglia in cui l’autore presta al personaggio del pazzo che evade dal manicomio il suo invadente protagonismo di intellettuale monologante, l’ipertrofia narcisistica di un io che cerca la complicità attraverso la persuasione dialettica e il coinvolgimento emotivo.

Spicca tra le centinaia di soggetti irrealizzati L’ultima cena (1972), sorta di ideale riepilogo delle inchieste sull’uomo che, dopo i grandi viaggi italiani e le fertili trasferte straniere degli anni quaranta e cinquanta, gli sembrano il compito più urgente di chi voglia misurarsi con i battiti più segreti della propria coscienza. Nell’incontenibile foga di un’inquietante chiamata di correità ci consegna l’inedita rappresentazione della cena tra amici nel paese-mondo di Luzzara, dove il coraggio di andare fino in fondo, incidendo con chirurgica lucidità nel cuore del reale, si popola dei fantasmi di un notturno padano d’incantevole freschezza.

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