Vitaliano Brancati al cinema

by Orio Caldiron

Sempre più ci si accorge che i risultati alti e importanti del cinema d’autore meno effimero e le fortune dei film italiani più popolari le dobbiamo anche all’estro dei nostri maggiori sceneggiatori. Sarebbe però un errore, in un soprassalto di contrizione, indulgere al trionfalismo e promuovere d’ufficio gli sceneggiatori nella rubrica degli autori, auspicando frettolosamente riabilitazioni sul campo, mettendosi a cercare bastoni di maresciallo nei loro cassetti.

La tentazione è forte, anche perché il ruolo dello sceneggiatore implica un alto grado di ambiguità, rischia sempre di apparire qualcosa di più e qualcosa di meno della figura del regista. Sempre sospeso tra l’essere soltanto un collaboratore dell’autore che si limita ad avviare il processo realizzativo del film, di cui però ignora l’esito ultimo o un superautore che regge le fila di vari progetti nei quali è possibile riconoscere, al di là della variabilità dei registi, la coerente continuità dei modelli narrativi e strutturali.

Se si tratta di uno scrittore e, in particolare, di uno scrittore come Vitaliano Brancati – nato a Pachino, Siracusa, il 24 luglio 1907, muore a Torino il 25 settembre 1954 – le cose non sono affatto diverse o migliori. Nella ventina di film che ha inventato da solo, o in collaborazione con altri, raramente è riuscito a far affiorare il suo contributo personale, sopraffatto dalle ambivalenze di una scrittura in vista di un’altra scrittura e dalle contraddizioni della macchina cinema che spesso condiziona il suo lavoro.

LA LENTE SMISURATA

Nel racconto Il vecchio con gli stivali c’è un momento di rottura in cui la passività del protagonista, il suo viaggio acquiescente dentro l’ottusità del regime, «cambia totalmente» fino a sembrare la storia di un «altro», l’irruzione improvvisa e spiazzante di uno «sconosciuto»: «Come attraverso una lente smisurata, egli era in grado di vedere quanto fossero imbecilli, quanto fossero balordi, quanto fossero prepotenti a destra e vigliacchi a sinistra, quanto fossero scavezzacolli, corti, malpartoriti, sconci!».

Nella «lente smisurata», che capovolge l’atteggiamento del piccolo uomo, si ritrova il meccanismo stesso della comicità che esorcizza le maschere del conformismo, facendo incontrare Bergson e Gogol’. Nella sua personale lettura del saggio di Bergson, nel rapporto tra il riso e la libertà, tra l’apparenza e il gioco, lo scrittore siciliano sottolinea il ruolo del comico nei regimi totalitari, nei quali «basta un minimo di coscienza critica a farci vedere tutta la società come una moltitudine di marionette in cui fili sono in mano, non del fato ma di un’entità più meschina: il dittatore». Quanto a Gogol’, alla forza irridente del suo grottesco, si sa che il comico paradossale di Brancati gli deve molto, anche quando non esclude la simpatia che fa il solletico ai personaggi.

E se la «lente smisurata» fosse una metafora del cinema? Non è un caso che quando, dopo varie sceneggiature su commissione, il rapporto con il cinema diventa più intenso, rispunti Aldo Piscitello, il «piccolo uomo» disarmato e insieme agguerritissimo di Il vecchio con gli stivali, il primo personaggio brancatiano a passare sullo schermo con Anni difficili di Luigi Zampa. Il film segna nel 1948 l’incontro con un lucido osservatore del costume che sa cogliere in flagrante gli umori del momento. Spesso sottovalutato, Zampa è un regista di grande interesse ancora tutto da studiare.

L’INCONTRO CON LUIGI ZAMPA

Negli altri film in cui prosegue la felice collaborazione tra Brancati e Zampa – da Anni facili (1953) a L’arte di arrangiarsi (1954) – s’impone la ricognizione del malcostume dilagante ai vari livelli della vita sociale, della corruzione e del clientelismo che rendono sempre più difficile l’esercizio dell’onestà e della coscienza civile. La rappresentazione sarcastica del trasformismo fa tutt’uno con la radiografia del ritorno del fascismo nel comporre l’itinerario grottesco di una discesa agli inferi, in cui i mostri sono in noi e con noi. Le disavventure del piccolo uomo, proiettano nello scenario della storia italiana, acquistano l’incisività di un viaggio impietoso dentro l’autobiografia di una nazione, popolato di volti, figure, situazioni di corrosiva vivacità.

La commedia italiana di lì a poco farà tesoro degli umori beffardi della trilogia per dispiegare l’epos della quotidianità, in quanto ha di sfuggente e insieme di essenziale, di magmatico e di spiazzante, che costituisce uno dei contrassegni più riconoscibili della sua vasta fioritura, della sua stessa presenza nel cinema nazionale. Si direbbe che la componente “politica” della commedia trovi nell’epos brancatiano del piccolo uomo una sorta di privilegiata chiave d’accesso alla inafferrabile vischiosità del quotidiano, all’inesauribile miniera di storie e personaggi che rappresenta.

DA IL BELL’ANTONIO A PAOLO IL CALDO

Nei decenni successivi alla morte dello scrittore alcuni dei suoi romanzi più noti sono arrivati sullo schermo in trasposizioni spesso molto libere – da Il bell’Antonio (1960)di Mauro Bolognini a Don Giovanni in Sicilia (1967) di Alberto Lattuada e Paolo il caldo (1973) di Marco Vicario – nelle quali è dominante il motivo del gallismo, il «dongiovanni siciliano, l’erotismo esistenziale dei siciliani» che. Secondo Sciascia, «si può dire approssimativamente, consista nel pensare e sognare la donna con tale assiduità e intensità, e talmente assottigliandone e sofisticandone il desiderio, da non reggere poi alla presenza di lei, da essere umiliati e come devastati». Sarebbe assurdo vedere o rivedere con i libri in mano questi e altri film d’ispirazione letteraria, per verificare la corrispondenza tra romanzo e film con il criterio del questo c’è/questo non c’è. Il gioco della fedeltà/infedeltà, è migliore il romanzo/ è migliore il film è un gioco antico e non per questo è meno futile della critica giudiziaria che confonde il rapporto tra cinema e letteratura con il match di pugilato o la lista della spesa.

Se invece l’avvio letterario è visto come suggestione ideale, fonte immaginativa, spunto creativo, le tracce brancatiane possiamo andarle a cercare anche (soprattutto?) in film dove il nome dello scrittore non appare neppure nei titoli di testa ai quali sappiamo che non bisogna credere più di tanto. Il più brancatiano è allora Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi.

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