Air Jordan, la nascita di un oggetto di culto e di un mito non più legato solo allo sport

by Claudio Botta

La scarpa più iconica di sempre, legata a una leggenda, che ha abbattuto per sempre i rigidi paletti dello sportwear e si è imposta come status symbol, oggetto del desiderio di generazioni su generazioni e fenomeno di costume, dal fascino e mito intramontabile. La ‘Air Jordan’ ha cambiato la storia della Nike, stravolto le regole del marketing, rivoluzionato il rapporto tra gli atleti e i brand. Solo nel primo anno ne sono state vendute 162 milioni di paia (in precedenza l’azienda aveva registrato il picco con ‘appena’ tre milioni), e continua ad alimentare un fatturato di 4 miliardi di dollari l’anno. Raccontarne l’incredibile genesi in un film è stata una felice intuizione degli Amazon Studios, che acquisiti i diritti della brillante sceneggiatura di Alex Convery si sono affidati alla premiata ditta Ben Affleck (anche alla regia) – Matt Damon per portare a casa un prodotto eccellente e difficilmente incasellabile. 

Nel 1984, la Nike (nome ispirato alla dea greca della vittoria, il logo dello swoosh disegnato per 35 dollari nel 1971 da una studentessa di grafica, Carolyn Davidson) si reggeva sostanzialmente con le vendite nel running, la comfort zone del CEO e fondatore Phil Knight (magistralmente interpretato da Affleck), runner appassionato dai tempi dell’università. Nel basket deteneva una quota marginale in un mercato dominato dai colossi Adidas e Converse, nonostante il gran lavoro di Sonny Vaccaro (un Damon imbolsito per somigliare all’originale anche fisicamente) nei licei per cercare e poi ingaggiare i migliori talenti, attraverso una competizione presto imitata dalla concorrenza. La svolta arriva con l’intuizione di Sonny di puntare l’intero budget annuale a disposizione, 250mila euro, sul giovanissimo Michael Jordan, che non aveva ancora esordito nell’NBA (era appena approdato nei Chicago Bulls) ma aveva lasciato intravedere le sue grandi potenzialità e la capacità di reggere una pressione enorme con disarmante naturalezza con il tiro vincente, a 15 secondi dal termine, nella finale per il titolo NCAA davanti a oltre 61mila spettatori stipati nel Superdome di New Orleans e a 17 milioni di telespettatori. Una svolta poi resa possibile dalla piena sintonia con la madre dell’atleta, Deloris (una straordinaria Viola Davis), dalla capacità di entrambi di andare oltre il presente e immaginare un futuro ambizioso, anche attraverso la rottura di regole, schemi, consuetudini (compreso il bypassare l’agente David Falk). Dalla voglia di rischiare – “il grande salto” del titolo può essere quello di MJ nell’Olimpo, immortalato da una stilizzazione conosciuta in ogni angolo del pianeta, ma anche quello dei vertici Nike verso l’ignoto, con situazioni familiari delicate (il direttore marketing Rob Strasser, un intenso Jason Bateman,fresco di separazione) e una società quotata in borsa -, dalla consapevolezza, dalla determinazione. Non l’ennesima, semplice declinazione del sogno americano, il successo partendo da una famiglia comune e senza nessuna corsia preferenziale, e dalla provincia (Portland, in Oregon) lontanissima da qualsiasi attrattività e legame con poteri economici, finanziari, sportivi; ma l’umanizzazione del business, l’attenzione non schiacciata unicamente sul profitto appannaggio di persone già ricchissime. E’ quello che muove la perentoria richiesta della madre di Michael di avere oltre all’ingaggio da testimonial anche una percentuale di royalties su ogni prodotto venduto con il loro nome, altrimenti l’accordo non si sarebbe mai chiuso: la necessità di una redistribuzione più equa di quella stessa ricchezza, e il riconoscimento del ruolo fondamentale dei protagonisti, della loro immagine addirittura più forte di quella dell’azienda, un rapporto quindi paritario e non sbilanciato (e dei 400 milioni di dollari l’anno che finiscono ai Jordan come percentuale sulle vendite, da quella firma ormai lontana, una notevole quantità viene destinata per aiutare persone meno fortunate e per iniziative lodevoli in svariati ambiti). Il primo caso nel basket professionistico e uno dei primissimi nel mondo dello sport, quello che ha generato il volume d’affari più consistente e ha avuto il maggiore impatto sul costume, la società, il fashion: le sneakers da totalmente bianche diventano colorate (di rosso e di nero, le prime Air Jordan), e da semplici scarpe da basket diventano l’oggetto del desiderio per chiunque, di qualunque età ed estrazione sociale. “Una scarpa è solo una scarpa, finché qualcuno non la indossa”: indossare ‘quella’ scarpa era così un modo per sentirsi in qualche modo legato ed accomunato ad una superstar mondiale, per affermarsi ed affermare e condividere la stessa filosofia e mentalità (tra le successive, prestigiose partnership che sarebbero poi derivate, vanno ricordate nel 2017 quelle con Off-White, grazie alla fantasia e al talento – anche imprenditoriale – di un altro straordinario visionario, Virgil Abloh, e con la maison francese Dior nel 2020).

Nel film, il vero Michael Jordan compare solo in immagini di repertorio, legate ad alcuni momenti significativi della carriera e della vita, mentre l’attore che lo interpreta viene inquadrato sempre di spalle. La sua voce non viene mai ascoltata: una chiave narrativa che esalta ancor più la mitologia del personaggio, perché qualsiasi sua rappresentazione rischiava di essere perdente e deludente, nell’inevitabile confronto con l’originale. E lo stesso accade per il basket, che è il cuore della storia ma viene proposto agli spettatori attraverso immagini trasmesse da televisori e schermi dell’epoca per pochi secondi, anche qui per preservare la sacralità del livello raggiunto dal suo massimo interprete di sempre, per gli addetti ai lavori e per il pubblico, che non si sarebbe mai potuta rendere in recitazione. Tuttavia il basket appare nello sguardo del designer interno Nike Peter Moore (interpretato da Matthew Maher), quando finalmente gli viene concessa l’opportunità di coronare il suo sogno, disegnare la scarpa più bella di sempre mai apparsa sul parquet e nelle strade, e lo skateboard improvvisamente non è più il suo unico mezzo per esprimere il vero sé stesso. Per questo il film tende a sottrarsi a incasellamenti di genere: va apprezzato, e molto, per come è stato concepito e realizzato, per le ricostruzioni di ambienti e location che riportano retroattivamente negli anni Ottanta dai colori accesi e sbiaditi in ordine sparso, per la colonna sonora straordinaria (le prime immagini sono accompagnate da Money for Nothing dei Dire Straits (con Sting seconda voce; altre perle sono Born in the Usa di Bruce Springsteen, che ha segnato l’intero decennio, Sirius di Alan Parson Project, Rock the Casbah dei Clash, Time after time di Cyndi Lauper, Ain’t Nobody di Chaka Khan…). Per la regia e la recitazione di Affleck, che conferma il suo talento (è stato il più giovane vincitore di un Oscar per la migliore sceneggiatura originale con Will Hunting-Genio ribelle, insieme a Matt Damon, e ha fatto il bis come miglior film con Argo, oltre a avere inanellato una lunga serie di ottime prove attoriali), più forte delle sue cadute e dell’inevitabile sovraesposizione da gossip per i suoi up e down con l’attuale moglie Jennifer Lopez. Per il cast ben assortito. Un film che sicuramente sarà ricordato a lungo, visibile su Prime Video.

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