Aspromonte, Calopresti racconta la terra “di quelli che ancora rispettano i padri” con un western rupestre

by Nicola Signorile

Un piccolo grande film su come eravamo, da vedere oggi per capire come siamo diventati. Aspromonte – La terra degli ultimi di Mimmo Calopresti è tratto da una storia vera accaduta negli anni ’50 in un remoto paesino della Calabria, prima che un alluvione lo devastasse nel 1951. Un western rupestre ambientato ad Africo, luogo abbarbicato sul monte calabrese, i cui abitanti non hanno nulla: non hanno la corrente elettrica, l’acqua corrente, un medico, una vera scuola. Per qualsiasi esigenza  devono lasciare la montagna per raggiungere la marina.

L’ennesima morte per parto di una compaesana scatena la rabbia degli abitanti del paese, stanchi delle promesse mai mantenute dal prefetto (Francesco Siciliano). Decidono di costruirsi da soli la strada per arrivare al mare, sarà più semplice raggiungere e farsi raggiungere dal medico. Ma la strada rappresenta anche una via di fuga per i tanti bambini di Africo, piccoli senza futuro ai quali manca anche la capacità di sognare qualcosa di diverso. È emozionante l’attaccamento ai luoghi natii di un gruppo di uomini e donne esasperati, umiliati da uno stato estraneo che gli ha chiesto di combattere per una bandiera, di uccidere, per poi dimenticarsi di loro. Il senso di comunità è l’architrave su cui poggiano le quotidianità dei personaggi di Aspromonte: si aiutano l’un l’altro, solidarizzano nella gioia e nei (tanti, troppi) dolori. I piccoli ragazzi selvaggi del paese, sporchi e a piedi nudi, danno una mano alle famiglie nei campi o nella costruzione della strada. Finché una maestra arrivata da Como non li riporta a scuola: lei ha scelto di andare in un luogo in cui la sua presenza può fare la differenza e non andrà via, come le altre prima di lei. Un pesce fuor d’acqua, si direbbe, cui dà corpo Valeria Bruni Tedeschi – un punto fermo nel cinema di Calopresti da La seconda volta a La parola amore esiste, in entrambi i casi premiata con il David di Donatello come miglior attrice – che con candore e tenacia evidenzia tutte le contraddizioni di un popolo troppo abituato ad abbassare la testa davanti al (pre)potente di turno.

Il Don Totò di Sergio Rubini è una canaglia (l’attore barese dà il meglio in questi ruoli, vedi Il grande spirito o La terra) tratteggiata efficacemente in poche scene, un bandito che tiranneggia la gente del paese: la sua irruzione a cavallo con fucile imbracciato durante l’unico momento di svago che si concede la comunità è degna dei migliori cattivi da western. Riesce a zittire anche Peppe, il leader naturale di Africo; suo figlio non si dimenticherà dell’umiliazione, “non hai detto nulla” dirà al padre. Peppe guida la protesta fin dentro le stanze della prefettura, trascina i compaesani nell’impresa di costruire la strada, fronteggia i carabinieri quando se la prendono con l’amico Cosimo (Marco Leonardi). Calopresti è bravo a sporcare i suoi attori, a colorire tutti di fango e di miseria. Non ci sono facce glamour in Aspromonte: persino Elisabetta Gregoraci, la bella del paese “scippata” da Don Totò alla sua famiglia, si spoglia di ogni orpello per il regista. Il brigante/signorotto non vuole che la strada sia completata: “Pensateci bene, i vostri figli se ne andranno tutti”, spaventa i concittadini, cercando, e riuscendo in parte, a insinuare il dubbio. La compattezza del gruppo mostra le sue crepe. “Non abbiamo bisogno della loro legge, noi abbiamo la nostra”, strepita, ammantando i soprusi di un comune sentire che tiene il paese lì dove deve restare, nella miseria e nella paura. Una miseria documentata da un reportage fotografico di una rivista nazionale che destabilizza per qualche ora le vite dei protagonisti, diffidenti nei confronti dell’intrusione di uomini benvestiti provenienti dal mondo esterno che ficcano il naso nelle loro case fatiscenti. Le fotografie scateneranno la reazione del prefetto, interessato più alla sua immagine che a risolvere i problemi degli africesi. Nel 1948 quelle fotografie, insieme all’articolo a firma Tommaso Besozzi, sul settimanale L’europeo documentarono le miserevoli condizioni di Africo, portandole all’attenzione dell’opinione pubblica.

La parabola simbolica di Aspromonte non cela le storture ataviche che frenano lo sviluppo del Sud: quel senso di comunità che prevale sull’appartenenza ad uno Stato che si volta dall’altra parte, giustificando l’atteggiamento della sua gente; la politica sorda ai bisogni delle persone, le forze dell’ordine zelanti nell’affossare i loro tentativi di opporvisi, l’omertà che fa muro davanti alle pressioni dell’autorità, salvando il balordo oppressore; l’ignoranza dei padri che fagocita le vite dei figli. Il sentore di genuino, a partire dall’uso del dialetto, fa bene al cinema, soprattutto se parliamo di una bella storia raccontata “per far rivivere quello che siamo stati, e ricordarlo a chi guarda”, come ha dichiarato Calopresti. E fa perdonare qualche ingenuità di scrittura e una messa in scena fin troppo tradizionale, che si rifà ad un cinema italiano che non si fa più, da Germi a Pasolini. Calabresi sono gli interpreti principali, da Leonardi (ad Africo fu girato in parte anche Anime nere di Francesco Munzi nel 2014) a Marcello Fonte, “il poeta” Ciccio Italia, al quale vengono affidate alcune delle più belle battute del film, “qui si studia per passione, mica perché serve a qualcosa” confessa alla maestra appena arrivata nel profondo meridione. Il grillo parlante di Africo, disegna e contempla assorto nella bellezza dei suoi luoghi, capisce l’importanza di dare un’istruzione ai bambini, sebbene nessuno dei suoi concittadini abbia potuto averne una.

Calabrese è Francesco Colella, l’ottimo protagonista Peppe, un attore di razza che di recente si è fatto notare nell’opera prima di Paolo Sassanelli Due piccoli italiani e nella serie americana Trust sul rapimento Getty; lo vedremo presto nei panni di Palmiro Togliatti nella fiction Rai su Nilde Iotti, Storia di Nilde. I duetti con il figlioletto sono tra le scene migliori, i botta e risposta con la maestra molto divertenti.  Mimmo Calopresti ha riletto, insieme a Monica Zapelli, il romanzo dello scrittore originario di Africo Pietro Criaco Via dall’Aspromonte” realizzando un tributo amorevole alla sua terra, impreziosito dalle straordinarie scenografie naturali, i paesaggi aspri, le pareti di roccia indifferenti ai destini umani,  la vallata sconfinata che si estende fino al mare, limite e massima aspirazione per gli africesi. La terra degli ultimi, “la terra di chi ancora rispetta i padri”. Quei padri costretti a lasciare le amate strade per dare un futuro ai propri figli, come il padre di Mimmo Calopresti emigrato a Torino dalla Calabria, come il 90enne produttore del film Fulvio Lucisano, che vediamo in un cameo finale che strizza l’occhio a Nuovo cinema Paradiso.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.