“Assassinio sul Nilo”: il remake di Branagh è un mix letale di gelosia, esotismo e nostalgia

by Fabrizio Simone

Due anni di attesa (tutta colpa del Covid? Non proprio), un budget notevole (90 milioni di dollari, di cui 5 assorbiti dal cachet di Gal Gadot, scelta per interpretare la bella ereditiera Linnet Ridgeway) e un incasso al di sotto delle aspettative (solo 116 milioni contro i 352 di Assassinio sull’Orient Express): finalmente Kenneth Branagh torna al cinema nelle vesti del brillante detective belga Hercule Poirot. Assassinio sul Nilo – Branagh firma anche la regia – è il remake della trasposizione cinematografica del 1978 di Poirot sul Nilo, pubblicato da Agatha Christie nel 1937 e portato sullo schermo dal regista inglese John Guillermin (la pellicola vanta la colonna sonora di Nino Rota).

Il cineasta nordirlandese, classe 1960, taglia, cuce e ricompone costantemente il romanzo della Christie, alterando in più punti (forse troppi) il prodotto originale, ma l’azione risulta più fluida e accattivante anche grazie alle scene introdotte da Branagh e dal suo sceneggiatore, Michael Green, che non trovano alcun riscontro all’interno della fonte letteraria (pensiamo al Poirot soldato nella prima guerra mondiale), rivelandosi però assolutamente funzionali allo sviluppo dell’intreccio o alla caratterizzazione del brillante detective. Lo spettatore non può che trarre appagamento da questa operazione a tratti spericolata e incurante di quell’autentica devozione che negli anni è stata tributata eccessivamente nei confronti del protagonista, ex capo della polizia di Bruxelles, considerato quasi un idolo inviolabile.

La stessa umanizzazione della sua statura granitica è una bella mossa: il Poirot di Branagh sa che il demone dell’amore volteggia incessantemente sulle nostre teste, costringendoci spesso a fare i conti con un passato mai del tutto concluso, per questo appare meno vanesio e il compiacimento narcisistico è sicuramente inferiore rispetto alla prima pellicola. Il Poirot di Branagh sa cos’è l’amore, rispetta l’amore altrui (anche quello che spinge all’omicidio) e non ha paura di mostrarsi debole agli occhi di chi prova un sentimento forte quanto il suo: piange, ricorda più volte l’unica donna della sua vita (Katherine, l’infermiera che aveva accettato la sua proposta di nozze, è un’altra invenzione di Branagh) ma non si preclude altre esperienze, indotto dal suo dinamismo ottimistico. La sua confessione più bella ruota intorno proprio al suo unico amore: “Dopo Katherine sono diventato qualunque cosa io sia adesso”.

D’altro canto, però, nel remake di Branagh la sensualità sconfina nella lussuria più raffinata: la seduzione si fa glamour e l’Egitto è l’ambiente ideale per la rappresentazione delle emozioni primordiali che sconvolgono la vita dei protagonisti e trascinano anche gli altri personaggi in un gioco pericoloso in cui l’esotismo (perlopiù digitale) fa da sfondo ad una continua destabilizzazione dei legami sociali. Il Karnak sembra scorrere su un fiume di gelosia più che sul Nilo. Tutti gridano vendetta (ognuno ha le sue buone motivazioni), ma non tutti hanno il coraggio di vendicarsi sull’elegante battello.

L’approccio contemporaneo adottato da Branagh, insieme alla ristrutturazione dei ruoli attribuiti a ciascun personaggio (e alla relativa soppressione di alcuni personaggi di Poirot sul Nilo), consente al regista/attore di introdurre tematiche importanti ed estremamente attuali come l’amore omosessuale e il razzismo, estranee al romanzo della Christie. Ad esempio Marie Van Schuyler, interpretata brillantemente da Jennifer Saunders (peccato che la sceneggiatura le abbia concesso uno spazio ridotto), nel romanzo della Christie è un’anziana signora americana con la passione per i gioielli (ruba la collana di Linnet perché è cleptomane), ma nel film di Branagh è l’elegante madrina dell’ereditiera, ha tendenze comuniste (esordisce dichiarando di non voler prendere parte all’oppressione della classe operaia e ammette d’aver donato quasi tutto il suo patrimonio al partito comunista inglese) ed è legata sentimentalmente ad una donna, Miss Bowers (una deliziosissima Dawn French), sua infermiera personale caduta in disgrazia in seguito alla crisi del’29. La signorina Van Schuyler prova a nascondere in tutti i modi la sua relazione ma agli occhi di Poirot non sfugge che Miss Bowers dormiva nella sua cabina la notte dell’omicidio. Le due donne temono il giudizio degli altri invitati e solo alla fine del film riescono a camminare mano nella mano in pubblico.

Anche Salome Otterbourne (Sophie Okonedo) e sua figlia Rosalie (Letitia Wright) subiscono una trasformazione: l’eccentrica scrittrice di romanzi rosa (ricordate Angela Lansbury nella trasposizione di Guillermin?) diventa una cantante blues afroamericana che partecipa alla luna di miele di Linnet in compagnia di sua nipote, amica d’infanzia della sposina (nel film di Guillermin Rosalie balla persino il tango con Peter Ustinov, mentre in quello di Branagh Rosalie disprezza il lucido detective). Zia e nipote sottolineano quanto il razzismo sia sempre stupido e alimentato da pregiudizi dettati dall’ignoranza e da un’educazione superficiale, come nel caso di Linnet.

Infine, la colonna sonora di Patrick Doyle, storico collaboratore di Branagh, ricorre ad un esotismo di maniera che contribuisce a calare lo spettatore nella mitica terra dei faraoni, suggestionandolo con un’orchestrazione possente ed evocativa, asservita totalmente ad un gusto magniloquente. Doyle gioca con le potenzialità di ogni strumento e dà il meglio di sé nel tratteggiare con enfasi la sontuosità dell’ambiente egiziano: lo si evince, ad esempio, nel superbo squarcio sinfonico dedicato alla presentazione delle piramidi, in cui la scrittura preziosa ma stereotipata riflette l’immaginario sull’Oriente. Però il vero tocco da maestro è riconoscibile soprattutto nel breve frammento che accompagna l’arrivo dell’innamoratissima Jacqueline (Emma Mackey è irresistibile) nel bel mezzo dei festeggiamenti, interrompendo le danze e il clima gioioso: il tremolo di violini e viole in sordina produce un morbidissimo tappeto sonoro su si staglia minaccioso l’assolo sibilante del violoncello.

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