Blonde, Norma Jeane spegne il cono di luce sul mito di Marilyn Monroe

by Molly Clauds

Ho atteso Blonde con una certa impazienza e anche con impazienza, nella mezz’ora finale, ne desideravo la fine. Presentato a Venezia e disponibile su Netflix dal 28 settembre scorso, il film è una biografia romanzata della complicata vita dell’icona di Hollywood Marilyn Monroe, basata sull’omonimo racconto di Joyce Carol Oates.

Sta dividendo molto il pubblico. C’è chi lo ama e chi lo detesta. Io sto nel mezzo, se può interessarvi.

Iniziamo subito col dire che l’interprete che veste i panni di Marilyn, Ana de Armas, lo fa benissimo e non certo come Kim Kardashian. L’attrice, pur non avendo la leggiadria del mito che è irraggiungibile per una star attuale per taglia, tono muscolare oggi androgino e circonferenza vita, ha fatto un lavoro di impersonificazione stupefacente. In molte scene, grazie al trucco e alle movenze mai caricaturali, sembra addirittura lei. Anche la voce ha il suo perché. È somigliante. (Ovviamente su Netflix i film vanno visti solo in lingua originale).

Il film, nonostante i numerosi pigli fantasiosi sulla vita dell’attrice come il menage a trois con i due attori suoi colleghi, attinge a pienissime mani dall’immenso patrimonio fotografico di Marilyn e ne ricalca gli umori, i costumi, le ambientazioni storiche dello showbiz americano.

Ed è proprio questo il fraintendimento dell’opera di Dominik, che è tutta concepita sul doppio. Persona e personaggio. Donna fragile ed eternamente bambina straziata e non amata e maschera.

Norma Jeane e Marilyn lottano tra di loro. Una è gelosa dell’altra. Una si vergogna dell’altra, che ha cominciato a calcare il palcoscenico donando il didietro ai produttori. Ma è Marilyn il sogno americano, quella che le bocche fameliche degli ammiratori vogliono quasi mangiare, non la sua versione struccata e triste.

Quando vediamo l’icona pop a colori con i suoi vestiti e la sua fenomenale aura bionda insieme ai suoi due mariti, Arthur Mille e Joe Di Maggio, interpretati da Adrien Brody e Bobby Cannavale, il film vola pur sfiorando l’agiografia e il biopic. Ma quando si perde nell’intimismo del dolore psichico del mito, quasi sempre tutto in un bianco e nero elegantissimo e concettuale, il racconto perde vigore. E noi fan diventiamo increduli e mesti.

Come si sa, Blonde indaga sull’alter ego di Marilyn, la sua creatrice, Norma Jeane, vero nome dell’attrice.

Cominciamo a vederla bambina, di sette anni, tormentata dalla madre schizofrenica Gladys (Julianne Nicholson), alcolizzata e violenta, tanto da minacciare più volte la vita della figlia, fino al tentativo di annegamento nella vasca.

Prima del tentato infanticidio la madre le mostra una foto del padre, che Norma Jeane non conoscerà mai e la cui immagine la tormenterà fino al fatidico suicidio per abuso di barbiturici e alcol.

Il padre, identificato nel 2022 attraverso il test del DNA come Charles Stanley Gifford, è sì solo una foto per Monroe come ha ricordato nella sua biografia. In seguito avrebbe guardato una foto di Clark Gable, con il quale avrebbe poi lavorato in The Misfits del 1961 , «perché assomigliava a mio padre, soprattutto per il modo in cui portava il cappello e i baffi».

La pellicola insegue il demone paterno, dà una centralità, forse esagerata per noi che guardiamo e che siamo invece affezionati all’icona delle serigrafie di Andy Wharol, al mito burroso e consapevolmente civettuolo e giulivo della Marilyn che tutti amiamo.

In Blonde, l’attrice è perseguitata dalla sua infanzia, dal suo tormento interiore che scava una voragine di morte e insoddisfazione, di affetto negato. Il suo Io frammentato si infrange in una lunghissima soggettiva sempre più turbinosa, a metà tra il sogno, l’allucinazione inconscia e la sbornia dell’alcol.

Tale sdoppiamento trova il suo culmine nella visione interna delle gravidanze interrotte da aborti spontanei e no. I bambini le parlano, ma lei non può e non sa essere madre. Gli aborti le lasceranno una traccia di dolore insaziabile.

La lezione degli studios è una sola: portare il proprio personaggio sempre con sé, vivere nel cono di luce e spostarsi in base a quel cono di luce. Sotto i riflettori. Senza mai trovarsi in ombra. Sul palco della vita. Fino alla distruzione o ai tanti atti di impudicizia, come lo squallido sesso orale col Mister President, che il personaggio chiede alla persona Norma Jeane.

Il mito di Marilyn viene sopraffatto dalla sua stessa volontà di perfezione e perdizione al contempo. Il cono di luce si abbassa e si spegne solo su quel letto disfatto.

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