Elegia americana: il viaggio Netflix di Ron Howard alla riscoperta del ventre molle Usa degli hillbilly

by Nicola Signorile

Non si può chiedere a Ron Howard di essere altro da sé. L’ottimo artigiano capace di intrattenere e emozionare il pubblico con storie di caduta e rinascita, di uomini che non si lasciano abbattere dalle difficoltà riuscendo alla fine a centrare grandi obiettivi. In questo J.D. Vance, il protagonista del suo ultimo film, Elegia americana (Hillbilly Elegy), dal 24 novembre su Netflix, somiglia a James Braddock, il boxeur al tempo della Grande Depressione di Cinderella man o al genio dei numeri John Nash di A beautiful mind, persino al damerino David Frost capace di domare Richard Nixon in Frost/Nixon. Uomini che gettano il cuore oltre l’ostacolo.

Nonostante, nel caso di Vance, una famiglia disfunzionale e un contesto squallido che fa di tutto per mettersi fra il giovane di belle speranze e la miglior versione di se stesso, il suo sogno americano. A quanto pare c’è ancora qualcuno che crede sul serio al sogno americano. Di sicuro lo fa Ron Howard, che in gioventù è stato il Richie Cunningham di Happy Days. Però Elegia americana appare soprattutto un’occasione sprecata per raccontare quel ventre molle degli Stati Uniti che nel 2016 ha portato alla Casabianca Donald Trump. Gli hillbilly, parafrasando il titolo originale dell’opera, i bifolchi delle montagne, operai bianchi impoveriti dalla crisi economica e dalla chiusura delle miniere che abitano il Kentucky, l’Ohio, i monti Appalachi, il West Virginia. “Discendenti da scozzesi e irlandesi che non sono andati a scuola. Per questa gente la povertà è la tradizione famigliare, i loro antenati erano operai nel Sud schiavista, e poi braccianti, artigiani e operai. Gli americani ci chiamano hillbilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini, amici, la mia famiglia”, iniziava così l’omonimo libro di memorie dello stesso J. D. Vance, pubblicato nel 2016 (in Italia edito da Garzanti), poi divenuto un bestseller molto controverso negli States.

Il titolo italiano invece ammicca spudoratamente a Pastorale Americana di Phillip Roth, esprimendo più banalmente il senso dell’omaggio sentito dell’autore al mondo, di frequente oggetto di pregiudizio, dal quale proviene. La storia di J.D. Vance è quella di un reduce dell’Iraq, laureato in legge nella “spocchiosa” Yale, assunto nella Silicon Valley, che, in ricordo dei suoi nonni che lo hanno aiutato, scrive un libro di memorie sulla sua infanzia disperata, in una comunità di bianchi che abitano relitti urbani del Midwest. Uno spaccato sociale, politico e antropologico sarebbe stato di grande interesse per il pubblico che in Europa e non solo guarda alle cose americane con attenzione e curiosità. Ma forse non è nelle corde di Ron Howard che più che altro sembra guardare alla strana stagione dei premi di quest’anno e alla notte degli Oscar, posticipata al 25 aprile 2021. Una stagione per molti aspetti unica, causa chiusura delle sale, in cui a disputarsi i riconoscimenti più importanti verranno ammessi film usciti fino al 28 febbraio prossimo e anche opere finite direttamente in streaming, purché ne fosse prevista un’uscita in sala.

Una storia vera calata in un contesto di povertà morale e materiale specchio di una parte degli Stati Uniti: caratteristiche che hanno fatto inserire Elegia americana tra i potenziali film candidati a più di un premio. L’uscita, e il tono generalmente negativo delle recensioni della critica a stelle e strisce, ne hanno ridotto sensibilmente le chance. Restano in pista le due figure femminili che dominano il film: la madre Bev, in perenne lotta con la sua dipendenza, interpretata da Amy Adams, e la nonna Mamaw, una Glenn Close invecchiata e imbruttita, quasi irriconoscibile. Due attrici di immenso talento, molto amate e apprezzate da pubblico e critica, due carriere di prestigio ancora non coronate dalla statuetta più ambita. L’Oscar è un discorso spinoso per entrambe: sei le nomination a vuoto per la 46enne Adams, l’ultima nel 2019 per Vice e sette per la Close, anche lei candidata nel 2019 per The Wife, che detiene lo spiacevole record di attrice con più candidature senza mai averne vinto uno. Il film di Ron Howard punto tutto sulle performance delle due attrici schiacciando tra due colossi Gabriel Basso, il povero “protagonista”: un ragazzone americano che sembra la pallina di un flipper, rimbalza da una parte all’altra senza mai riuscire a incidere, ad essere soggetto attivo della sua stessa storia, penalizzato da una sceneggiatura che gli riserva solo materiale di risulta.

Elegia americana è un viaggio alla riscoperta delle proprie radici. Howard ci porta avanti e indietro nella vita di J.D. tra le estati dell’infanzia a Jackson, Kentucky e un presente da promettente studente di legge a Yale, che cerca di sostenere le spese universitarie facendo più lavori contemporaneamente. Un ambiente al quale sente di non appartenere, usato come un mezzo per arrivare alla meta. Proprio quando è in vista l’occasione della vita, il lavoro dei sogni, entrare, da tirocinante, in un prestigioso studio legale americano, J.D. viene richiamato alla realtà, ai doveri famigliari, a prendersi cura della madre, ricoverata per overdose d’eroina. Lei è una donna intelligente che ha dovuto metter da parte il percorso scolastico per la famiglia e non perde occasione di rinfacciarlo al figlio, anche da adulto. Una mamma instabile, estremamente vulnerabile, votata all’autosabotaggio, che dà modo ad Amy Adams di dar fondo a tutto il suo mestiere, pur avendo a che fare con materiale trito, specialmente nei momenti legati alla sua dipendenza.

Passa da una relazione sbagliata all’altra, portandosi dietro di delusione in delusione i piccoli J.D. e Lindsay, la sorella (Haley Bennet da adulta). Niente di nuovo sul fronte del Midwest, insomma. L’emancipazione dalle proprie origini non si è tradotta in rancore: al contrario nel giovane aspirante avvocato c’è grande dignità di appartenere all’America vera, la fierezza di un background tumultuoso fatto di abusi e dipendenze che non va rinnegato. È in qualche modo diventato la sua forza motrice. Un messaggio che emerge solo a tratti e che, privato di un affresco contestualizzato, diventa solo un modo di riabilitare senza ragione evidente un pezzo d’America “dove tutti sembrano possedere il superfluo ma gli manca l’essenziale”. Efficace è il momento in cui J.D., durante la cena che può decidere il suo futuro, redarguisce un pezzo grosso per aver usato la parola redneck riferita alle sue origini: “No, noi non usiamo quel termine”.

Sullo sfondo si staglia nonna Mamaw, zoppicante ma fiera. Fuma come una ciminiera, parla come uno scaricatore, è piena di pregiudizi. L’architrave della famiglia, originaria della comunità degli appalachiani nel Kentucky, trasferitasi in Ohio dopo essere rimasta incinta a tredici anni. Ragiona per stereotipi (“siamo gente di montagna, noi rispettiamo nostri morti”), proprio per questo sembra l’unica ad avere delle certezze. Glenn Close incarna un passato traumatico di abusi e l’istinto di protezione nei confronti del nipote. In lei il film deposita i valori tradizionali americani e quel sogno di una vita migliore, alla quale J.D. potrà accedere se qualcuno “gli darà delle attenzioni”. “Vuoi essere qualcuno o no?”, chiede al nipote adolescente, dopo aver constatato che l’essere circondato da perdenti lo renderà un perdente. Spetterà alla vecchia Mamaw strapparlo alle cattive compagnie e rimetterlo in carreggiata. E a lei sarà dedicata questa Elegia americana che, a parte qualche timido affondo sullo scadente sistema sanitario statunitense, lascia sul campo tanti temi senza approfondirne alcuno. Vedremo se almeno servirà alla grande attrice americana per mettere finalmente le mani sulla tanto agognata statuetta.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.