Favolacce dei fratelli D’Innocenzo: quando i padri non riescono a preservare intatta l’innocenza dei figli

by Annalisa Mentana

“È un sogno la vita che par sì gradita. È breve gioire. Bisogna morire”: canta come una sirena Rosemary Standley nella sua versione della ballata barocca “Passacaglia della vita”. Intanto scorrono i titoli di coda: il mio sguardo è fisso su un punto indefinito dello schermo e una lacrima mi resta impantanata a metà guancia, senza lo slancio sufficiente a scorrere via.

Ho appena finito di vedere Favolacce, l’ultimo film scritto e diretto da Damiano e Fabio D’Innocenzo – premiati con l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura alla Berlinale 2020 – e dovrei scrivere di questo. Eppure, l’unica cosa che ora credo di desiderare è quella di mettere sul piatto una serie di miei personalissimi ed inconfessati ricordi d’infanzia. Perché mi sembra che sia innanzitutto giusto accogliere questo film come una confidenza sussurrata al buio, come una così disarmata ammissione di fragilità, di fronte alle quali non puoi non avvertire il dovere morale di rispondere con la stessa moneta, almeno per provare a mettere le cose in pari con Fabio e Damiano. Per cui, quello che per prima cosa scriverò è che, da un certo punto in poi della visione del film, ho pensato incessantemente alla me bambina, che non riesce a dormire – o che ha deliberatamente deciso di privarsi del sonno, non so – perché ossessionata dal pensiero di poter morire dormendo. O che non riesce a dormire perché atterrita dal pensiero della morte. Poi ho pensato anche a mio padre, poco più che un ragazzo, al quale affidavo questi pensieri terribili. Ne ho provato una pena profonda, rivedendolo alle prese con interrogativi ed inquietudini tanto più grandi di lui, completamente incapace di fornirmi risposte definitive in grado di rassicurarmi. Figuriamoci le favole della buonanotte: con me tempo perso.

E così come mio padre o forse come tutti i padri, nessuno dei genitori e padri di famiglia raccontati in Favolacce è in grado di rappresentare un modello realmente all’altezza delle aspettative e degli interrogativi dei propri figli quasi adolescenti, che non sono capaci di proteggere e di cui non riescono a preservare intatta l’innocenza.

Forse loro stessi l’hanno sciupata troppo presto per ricordarsene, forse sono troppo presi dalla smania di conservare una facciata decorosa: fatta di ineccepibili pagelle scolastiche, piscine gonfiabili e cene in giardino su tavole apparecchiate rigorosamente con stoviglie di plastica, di maestri di sostegno incapaci e di cui in realtà i propri figli non hanno poi nemmeno bisogno, di giornate al mare ma in spiaggia libera, tanto il mare una volta che ti fai il bagno sempre quello è. Una serie di piccoli, quasi impercettibili fallimenti e atti di violenza subiti e agiti – ad ognuno dei quali uno come Carver avrebbe dedicato un singolo racconto – e che messi però tutti in fila, in uno spazio angusto, logorano dentro e fanno malissimo.

E tra le figure paterne del film svetta su tutte il personaggio pieno di spigoli di Bruno, calato sulla pelle di Elio Germano. Bruno indossa esclusivamente magliette polo di un noto marchio casual, che mi sembrano raccontare di un ex ragazzo frequentatore degli ambienti ultras estremi e vagamente politicizzati a destra, sempre pronto allo scontro fisico e verbale. Avrà forse dovuto provare a darsi la famosa “calmata” dopo aver messo su famiglia. Non è detto che poi ci sia riuscito.

Del resto, come in ogni fiaba che si rispetti – e così ci hanno dimostrato altri due meravigliosi fratelli, i fratelli Grimm – al centro della narrazione vi sono sempre famiglie fragili o monche, che senza alcuna remora, per bisogno o semplicemente per superficialità, espongono i propri figli a tutta la gamma dei pericoli, delle brutture e degli orrori di cui il mondo è pieno. Con tutto questo, ci insegnano Pollicino o Hansel e Gretel, i bambini dovranno imparare a fare i conti da soli, se vorranno diventare grandi, adulti.

Se vorranno, appunto.

Perché su questo snodo, senza voler svelare di più della trama, Fabio e Damiano sovvertono e abbattono in un solo colpo gli archetipi e tutti gli schemi di ogni narrazione di iniziazione all’età adulta. Un passaggio esistenziale che qui si svuota di epicità e sfocia nel meccanico – anzi nel chimico – senza fare troppo rumore e in modo quasi banale, come del resto tutte le altre cose che riguardano la vita e la morte.

E come in tutte le favole, anche le Favolacce dei fratelli D’Innocenzo si dipanano in uno spazio ristretto e quasi astratto, simbolico, raccontato con inquadrature ampissime: un complesso residenziale in cui tutti conoscono tutti, alle porte di Roma, immerso in una campagna tutt’altro che bucolica, letteralmente buttata sotto un sole crudele e metafisico, che impietosamente svela la cellulite sul culo di Vilma – una strepitosa e trasfigurata Ileana D’Ambra – e tutta la gamma dei difetti cutanei su cui Fabio e Damiano ci costringono a far indugiare lo sguardo. In sottofondo, a tutte le ore del giorno e della notte, un incessante e opprimente frinire di cicale, che muta in contrappunto musicale e che sembra dare voce ad invisibili creature magiche, costante presagio del peggio, che deve sempre, ancora, venire.

Quando poi nel racconto potrebbe profilarsi qualcosa di clamorosamente destabilizzante – intorno al quale sembrano riecheggiare deflagrazioni da pastorale americana – quasi ci sentiamo sollevati, colti da un senso di liberazione. Ma poi il peggio non accade e ci tocca continuare a resistere, resistere ancora sotto il sole rovente.

E quando infine – dopo un lungo indugiare che non svela mai il fatto in sé ma sempre e soltanto le reazioni di coloro che lo subiscono inermi – la catastrofe avviene, i fratelli D’Innocenzo ci lanciano un’ancora. La voce narrante di Favolacce – affidata a Max Tortora, che dopo “La terra dell’abbastanza” torna al fianco dei D’Innocenzo – ci suggerisce che forse, tutto ciò al quale abbiamo assistito, è semplicemente il frutto della fervida immaginazione di una bambina, affidato alle pagine di un diario trovato nella spazzatura e scritto durante un’indolente estate, in cui i compiti per le vacanze sono stati fatti già appena finita la scuola e per il resto del tempo ci si annoia mortalmente.

Sospeso ogni giudizio, chiusa la morale in garage, la decisione di credere o meno a ciò che si è visto è affidata allo spettatore, lasciato libero di raccontarsi la verità che riesce a sopportare o quella che semplicemente gli fa più comodo e gli consente di mettersi l’anima in pace.

Per quanto mi riguarda, nemmeno questa Favola è riuscita a fare acquietare le mie paure di bambina e anche stanotte, soprattutto stanotte, credo la passerò con gli occhi sbarrati a guardare le ombre sul soffitto.

PS. Non l’ho scritto sopra, lo scrivo qui: il film di Damiano e Fabio D’Innocenzo è bellissimo e da ogni singolo dettaglio trasuda amore e cura e gratitudine: sentimenti che soltanto chi abita la Poesia può praticare.

Favolacce, in attesa di rivederlo tutti insieme sul grande schermo, è disponibile dall’11 maggio su Sky Primafila, TimVision, Rakuten e altre piattaforme on demand. Cercatelo.

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