Figli, l’amorevole tributo a Mattia Torre, tra realtà ed inconscio

by Nicola Signorile

Figli di Giuseppe Bonito è prima di tutto un amorevole tributo a un talento che se n’è andato troppo presto: Mattia Torre, sceneggiatore e scrittore, autore di serie, film e spettacoli teatrali di successo, scomparso dopo una lunga malattia nel luglio del 2019 a 47 anni. Osservatore lucido e puntuale, capace come pochi di raccontare la sua generazione e l’Italia di oggi senza prendersi troppo sul serio, come ha dimostrato con Boris e con il film Ogni maledetto Natale, insieme a Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, e con la molto autobiografica serie Rai La linea verticale, scritta insieme a Valerio Mastandrea.

Figli è una tragicommedia divertente, dissacrante, a tratti feroce, sulla crisi di una coppia di over 40 alle prese con l’arrivo del secondo figlio, tratta dal monologo I figli invecchiano, scritto da Torre e interpretato da Valerio Mastandrea nella trasmissione E poi c’è Cattelan a teatro. Il rapporto tra Nicola e Sara, già genitori di una bambina di sei anni, è lo spunto, come sempre nei testi di Torre, per raccontare l’Italia di questi anni e i suoi vizi atavici, non risparmiando bordate a nessuno, compresa la coppia di protagonisti. L’autore romano lo aveva già fatto nei suoi precedenti lavori, raccontando il Paese attraverso il bizzarro set di una fiction televisiva (Boris) o attraverso il quotidiano di un reparto oncologico di un ospedale italiano (La linea verticale). Figli avrebbe dovuto essere il suo terzo lungometraggio dopo Boris – il film e Ogni maledetto Natale, ma non ha fatto in tempo a dirigerlo. Prima di iniziare le riprese, ha lasciato il timone a Giuseppe Bonito, in passato suo assistente alla regia, qui all’opera seconda dopo l’esordio Pulce non c’è, premio speciale della giuria alla Festa del cinema di Roma nel 2012.

Un duetto sopraffino, quello tra Valerio Mastandrea (Nicola) e Paola Cortellesi (Sara), per la prima volta insieme sul grande schermo, che tiene la pellicola in bilico tra dramma e commedia surreale; due persone normali con ossessioni e fobie, unite da un sentimento vivo e resistente, messo a dura prova dal piccolo nuovo arrivato che rende necessario trovare un nuovo equilibrio.  “Andrà tutto bene” diventa una sorta di mantra che ha tutto il sapore dell’illusione rassicurante. In teoria basterebbe quel “50 e 50”, quella divisione dei compiti che nella realtà lascia entrambi insoddisfatti, entrambi mai capaci di riconoscere gli sforzi dell’altro. Lei accusa Nicola di non fare nulla in casa, di non collaborare, lui si trincera dietro un “lo faccio dopo”, ha fatto la lavastoviglie, l’hanno visto tutti. “Ma tu perché fai sempre tutto subito?”, è una battuta da antologia. Tutto quello che riesce a fare una donna in ogni giornata della sua vita, per un uomo è roba da supereroi in calzamaglia.

La chiave scelta per raccontare la crisi di coppia è la mescolanza tra diversi piani narrativi: la realtà, la percezione della realtà e le numerose irruzioni dell’inconscio. Una fusione, familiare a chi conosce già la vena satirica di Torre, che può risultare spiazzante, almeno all’inizio, per il resto del pubblico. Entrati nel meccanismo, si ride spesso e di gusto, si riconoscono le tipologie di genitori tratteggiate nella pellicola, ci si ritrova nelle difficoltà quotidiane di una coppia che decide di fare un secondo figlio nell’Italia stressata, incazzata e rancorosa del tasso di natalità zero e della precarietà che travolge tutto, compresi i sentimenti. “1+1 fa 11”, la formula del secondo figlio è il punto di partenza: papà e mamma si amano, hanno una casa, due lavori, rispettive famiglie alle spalle, amici, ci sono già passati con la prima figlia, non dovrebbero esserci problemi. Invece, il nuovo arrivato manda in pezzi il quadro famigliare, accentuando l’assenza di supporto, dello Stato e stavolta anche dei nonni,  che grava sulle loro spalle. “I primi tre mesi sono stati la quiete prima della tempesta. E se fossi stato un saggio capo indiano probabilmente avrei sentito la tempesta arrivare”, la voce narrante di Nicola/Mastandrea introduce al primo dei capitoli destinati a comporre un ritratto dell’esser padri e madri oggi. Esilarante l’elenco delle tipologie di genitori, dai milionari che appaltano alle tate filippine l’educazione dei figli a quelli che impongono le proprie scelte ai bambini, “regalano ai piccoli una sola scarpa per farli abituare a non dare nulla per scontato”, dai maniacali che mettono il bebè al centro del mondo ai papà separati inseguiti dal senso di colpa cattolico che assume le fattezze di Fabio Traversa (ricordate il mitico Fabris di Compagni di scuola?); poi ci sono i giovani e flessibili, non hanno paura di niente, che in Italia semplicemente non esistono. Il film è pieno di trovate visive come quella di immergere in un bianco lattiginoso personaggi e situazioni, un panorama di sconfinata solitudine in cui spesso ritroviamo gli amici di Mattia Torre – quasi tutta la banda di Boris, Andrea Sartoretti, Massimo De Lorenzo, Paolo Calabresi, Valerio Aprea e Carlo De Ruggeri  – in piccoli gustosi cammei.

Ci si destreggia tra notti in bianco, cartelle del fisco, insostenibili chat di classe, baby sitter dall’improbabile italiano, pediatre carissime e filosofeggianti (“no, lasciate perdere il lavoro. Non avete una rendita? Una casa da affittare?”), amici stravaganti (Stefano Fresi è il miglior amico di Nicola, vessato dai due figli) e nonni che sembrano bambini, hanno sempre da fare e non possono occuparsi del nipotino appena nato. Non c’è scampo all’assillante pianto del neonato, trasformato, per la gioia degli spettatori, nella Sonata per pianoforte numero 8 di Beethoven, la Patetica. L’unica via di fuga sembra essere saltar nel vuoto da una finestra, come a turno fanno Nicola e Sara, altra trovata intelligente in una pellicola imperniata su una robusta sceneggiatura piena di idee, a cui la regia di Bonito aderisce senza strafare, con grande tatto e rispetto. Alcune sequenze di Figli sono già di culto. Su tutte, il confronto tra la protagonista e sua madre, invitata a collaborare alla “gestione” del bambino per permettere a Sara di tornare al lavoro. L’anziana non ne vuole sapere e la figlia le rovescia addosso tutta la sua frustrazione, “la vostra generazione si è mangiata tutto”, sono gli ultimi a potersi permettere un mutuo, seconde e terze case, a credere nel futuro, “visto che non morite neanche più”.  Ma loro sono la maggioranza, hanno in mano il potere decisionale, “occhio perché siamo un esercito, la pubblicità, la fiction in tv, Sanremo, sono fatti per  noi, siamo noi a sostenere teatro e cinema, teniamo in scacco l’economia nazionale”: partita, gioco e incontro a favore della nonna che esce indenne dall’incalzante gioco al massacro, minacciando la rivoluzione degli over 60 e facendoci ridere amaramente. Mattia Torre aveva il dono di mettere in scena la vita vera, di pungere e far ridere al tempo stesso, senza cedere al cinismo tanto di moda, perché nel suo sguardo e in quello di Bonito non mancano grazia e tenerezza. In fondo, il secondo figlio per Nicola e Sara vuol dire scommettere su se stessi, sulla propria famiglia, persino sul proprio, disastrato, paese. 

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