“Gli uomini d’oro”, un noir sorprendente per tre volti da commedia

by Nicola Signorile

Una fredda e piovosa Torino. Facce da commedia prestate al cinema di genere. Un efficace meccanismo a orologeria. Il sottile disprezzo verso chi è venuto dal Sud per lavorare nella città della Mole.

Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri è un film a suo modo unico nel cinema italiano di questi anni. Al netto di qualche manierismo, è un noir cupo che attinge alla commedia solo con parsimonia, un teso heist movie che si scrolla di dosso la polvere accumulatasi sul genere nostrano, una volta fiore all’occhiello. Il significato del titolo rivela (o no?) già molto del film: con l’espressione gli uomini d’oro si indica chi è in grado di mettere a segno un colpo perfetto con un ricco bottino senza spargimenti di sangue. La Torino del 1996 con la Juventus che si appresta a giocare la semifinale di Champions contro il Nantes fa da sfondo a un fatto di cronaca “incredibilmente vero” di cui fu protagonista un gruppo di uomini male in arnese, deciso a portarsi a casa i miliardi trasportati da un furgone portavalori delle Poste. Basti sapere che lo spunto arriva da un articolo del giornalista Meo Ponte, che concluse il pezzo sulla rapina così: “Se facessero un film tratto da questa vicenda, comincerebbe come I soliti ignoti di Monicelli e finirebbe come Le iene di Tarantino”.

Gli uomini d’oro si struttura in capitoli dedicati ai suoi personaggi principali: Il Playboy, Il Cacciatore, Il lupo. Fa rivivere allo spettatore la rapina ogni volta da un punto di vista diverso, sempre a partire da un rigore a favore della Vecchia Signora nel derby della Mole, segnato da “penna bianca” Ravanelli. Una struttura – utilizzata molte volte al cinema, da Rashomon di Kurosawa a Tarantino, dall’Iñárritu di Amores Perros fino al Virzì di Il capitale umano – che svela a poco a poco chi sono gli uomini d’oro. Aggiunge tasselli che chiariscono progressivamente le motivazioni personali che spingono individui comuni a compiere una scelta estrema, raccontano le piccole miserie quotidiane di italiani disposti a tutto per il denaro. Si può mettere in pausa la propria morale per il colpo grosso che ti fa svoltare? Vale l’impresa il sorriso di una figlia che finalmente ha tutto quello che desidera?

Interessante la scelta di affidare un gruppo di personaggi sconfitti dalla vita e depressi ad attori che siamo abituati a vedere in commedia, come i tre protagonisti Fabio De Luigi, Edoardo Leo e Giampaolo Morelli. Alfieri aveva già dimostrato di avere stoffa con la sua godibile opera prima I peggiori, un Kick-ass all’italiana in cui lo stesso regista e Lino Guanciale erano due giustizieri a cottimo. Lì il tono prevalente era ancora la commedia, il salvacondotto italico per ogni tipo di storia sul grande schermo. Stavolta la virata è decisa, anche se non totale, verso il nero, supportata da una sceneggiatura ben scritta dal regista salernitano con un trio di autori – affini per generazione e (probabilmente) immaginario – come Alessandro Aronadio, regista del sorprendente Orecchie, Renato Sannio, che aveva scritto, tra le altre cose, Che vuoi che sia, e Giuseppe Stasi, co-regista con Giancarlo Fontana di Metti la nonna in freezer e Bentornato Presidente.

Luigi Meroni (Morelli) è il Playboy, nella vita fa l’autista di portavalori, gli mancano pochi mesi  alla baby-pensione, finché la riforma voluta da Lamberto Dini, “uno che non ha eletto nessuno”, lo condanna ad altri vent’anni di routine, rinviando per sempre il suo sogno di trasferirsi in Costa Rica. Giampaolo Morelli tiene a freno la vena istrionica da Commissario Coliandro, anche se il suo personaggio può lasciarsi di tanto in tanto andare a sprazzi di brillantezza. Novello Tony Manero nel pirotecnico avvio del noir investe con invidiabile presenza scenica una discoteca disseminata di neon fluorescenti (che fanno pensare tanto agli anni ’80) al ritmo di  Rhythm Is A Dancer, hit degli Snap del 1992. A rubargli la scena ci pensa una conturbante Matilde Gioli al centro della pista,  le cui movenze in abitino lamé oro rimandano alla mitica Sharon Stone di Basic Instinct. Ma la scoppiettante sequenza è un piccolo inganno per lo spettatore, presto catapultato nella grigia quotidianità del Meroni, ogni giorno inchiodato al volante, costretto a ritirare sacchi pieni di soldi dagli uffici postali scortato da un’auto della Polizia.

Nel furgone con lui c’è il Cacciatore, Alvise Zago (De Luigi), grigio e rancoroso impiegato che mal sopporta il collega napoletano; “è già tanto che li fanno lavorare gli zulu come te”, gli dirà sfinito dalle continue lagnanze del mancato baby-pensionato. Un personaggio cinico e opportunista che permette all’ex Olmo di Mai dire gol di uscire finalmente dai panni del simpatico bonaccione di miriadi di commedie per indossare quelli di un tirchio padre di famiglia con un cuore ballerino che fa tre lavori per mantenere moglie – una sorta di fantozziana Pina, interpretata dalla convincente Susy Laude – e figlia. Un borghese piccolo piccolo trattenuto e pieno di rabbia, tratti che lo accomunano all’amico Nico, con il quale gestisce un localaccio per motociclisti. Il Lupo (Leo) è un ex boxeur ammaccato nel corpo e nello spirito, un perdente – lo capiamo sin dai primi sguardi – inizialmente solo sfiorato dal piano, da cui col passare del tempo sarà sempre più coinvolto. Una sfida anche fisica per Edoardo Leo che ha messo su dieci chili di muscoli in pochi mesi per tornare alle sfumature noir di Romanzo Criminale (era Nembo Kid nella serie di culto, molto tempo prima di diventare uno dei beniamini della commedia made in Italy). Le figure femminili sono tutt’altro che di contorno, anzi rappresentano uno dei motori delle azioni dei protagonisti. In poche scene vengono tratteggiate tre donne molto diverse, dalla sospettosa moglie di Zago alla semplice Anna, impersonata dalla Gioli, con il piccolo sogno di aprirsi un centro estetico tutto suo, fino alla cubana Gina (Mariela Garriga), viso d’angelo e corpo mozzafiato, fidanzata dominatrice del Lupo.

Nel sistema di ritiro dei sacchi di soldi c’è un difetto e Meroni ci si fionda senza esitazioni, dopo tutto meglio “20 anni di galera che 20 anni alle poste”. Il piano necessita di un piccoletto in grado di stare all’interno della cassaforte per scambiare i soldi con carta straccia (in realtà le pagine di Topolino) dello stesso peso. Ed ecco un’altra bella sorpresa del film: Luciano Bodini è l’amico pensionato di Meroni, “terrone” insoddisfatto sfegatato tifoso della Juve, figura alla quale spetta l’alleggerimento dei toni quale spassosa spalla del playboy: ruolo in cui si conferma il talento dell’attore materano Giuseppe Ragone, che abbiamo apprezzato nel ruolo del giornalista canaglia della fiction Rai, Imma Tataranni. Del coro fa parte anche Gianmarco Tognazzi nei raffinati panni di Boutique, sarto d’èlite e vile strozzino, per il quale il Lupo fa il lavoro sporco.

L’attenzione ai dettagli fa la differenza. A cominciare dal cast, curato anche nei ruoli di contorno (vedi Mimmo Mancini e Claudio Castrogiovanni in apparizioni significative). La regia di Alfieri è coraggiosa e contemporanea, si ispira a modelli che hanno poco a che fare con l’Italia, almeno a quella recente. Non eccede in manierismi, focalizzandosi sulla costruzione di un immaginario di genere di grande qualità. Guida con mano ferma un  treno ad alta velocità che avrebbe potuto deragliare facilmente sull’onda dei tarantinismi tanto di moda. Il ritmo invece non è forsennato: tiene alta l’attenzione del pubblico costruendo scene di suspense importanti, come quelle all’interno del furgone durante il colpo, anche grazie al montaggio curato dallo stesso Alfieri e lasciando persino spazio a lampi di erotismo, altro assente ingiustificato nelle pellicole italiane degli ultimi anni. La dovizia di particolari caratterizza la costruzione degli ambienti del film – con i neon nell’appartamento del playboy, le vetrine, gli abiti, gli accessori – che beneficia della mutevole fotografia di Davide Manca; le canzoni spesso strizzano l’occhio più agli Ottanta che ai Novanta (su tutte, Alive And Kicking dei Simple Minds del 1985 e Lullaby dei Cure del 1989). Nota di merito alla colonna sonora firmata dal barese Francesco Cerasi che ordisce una tela elettronica di grande impatto, il battito cardiaco de Gli uomini d’oro.

Un ottimo film che purtroppo fa molta fatica nelle ingolfate sale italiane, non aiutato da una promozione un po’ ambigua che non ha chiarito fino in fondo il carattere del film: se il pubblico si aspetta di vedere una commedia resterà deluso e, viceversa, se non si spiega che trattasi di crime movie, gli spettatori che non amano le commedie non andranno a vederlo. Una delle tante pellicole belle e pressoché invisibili di questi anni che si innestano nel solco della lunga pausa di riflessione tra il pubblico e il cinema italiano. Alfieri ha 33 anni, un talento della generazione dei 30/40enni  – come Mainetti, Sibilia, Rovere, Cupellini, solo per citarne alcuni – che stanno cercando di svecchiare il nostro cinema, di realizzare film che vivono nel presente e possono avere un appeal anche fuori dai confini nazionali, puntando spesso sul bistrattato genere. La colpa, intendiamoci, non è solo degli spettatori, ormai assuefatti alla valanga di commedie interscambiabili che ha per anni affollato le sale,  ai personaggi insulsi, alle situazioni improbabili, a recitazione da prodotto televisivo della peggior specie. Tutto vero: però ora è tempo di dare una chance al nostro cinema, di cancellare una lettera scarlatta marchiata a fuoco che preclude il successo di opere interessanti. Come nel caso dell’ottima opera seconda di Alfieri: un regista del quale sentiremo molto parlare, soprattutto se avrà il coraggio di mollare definitivamente la coperta di Linus della commedia.                           

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