Hidden Life, la difesa della grazia e dell’umanità dell’esistenza nel nuovo film di Terrence Malick

by Nicola Signorile

Cosa è successo al nostro paese, alla terra che amiamo?”. Uno dei mille interrogativi che lascia sul campo l’ultima maestosa opera di Terrence Malick, La vita nascosta – Hidden Life, un atto d’amore verso l’umanità resistente, un atto di fede nella bellezza della natura indifferente alle sorti degli uomini.

Un film che si rivela essere una mano tesa verso chi, negli ultimi anni, si era allontanato dal cinema del regista americano, perso in un solipsistico viaggio antinarrativo e per lo più fine a se stesso intrapreso dopo la Palma d’Oro a Cannes vinta con The Tree of life e che aveva toccato i punti più ostici con Voyage of time e Knight of cups. Con Hidden life (titolo ispirato a un verso della scrittrice inglese George Eliot) ritroviamo lo straripante talento di Malick al servizio di una storia realmente accaduta, di una narrazione priva di salti temporali e di digressioni metafisiche. Non certo un biopic convenzionale, piuttosto un terso poema per immagini che pone quesiti esistenziali, da sempre la raison d’etre dell’arte di uno dei più grandi cineasti viventi.

Franz Jägerstätter è un contadino austriaco che decise di opporsi al nazismo. La sua profonda fede cattolica lo spinse a resistere alla barbarie: votò contro l’Anschluss nel 1938 e si rifiutò di rispondere alla chiamata alle armi del Terzo Reich. L’obiettore di coscienza non si sottomise mai. Fu condannato a morte per tradimento e giustiziato nel 1943 (nel 2007 papa Benedetto XVI riconobbe il suo martirio e Franz fu beatificato). Una vita che sarebbe rimasta nascosta se il ricercatore americano, Gordon Zahn, non avesse scoperto il carteggio tra Franz e sua moglie Fani, dopo il suo arresto per diserzione.

Franz (August Diehl) e Fani (Valerie Pachner) vivono con le loro tre bambine “al di sopra delle nuvole” a Radegund, un villaggio in una verdeggiante vallata tra le montagne d’Austria. Una comunità rurale immersa in una natura di sconcertante bellezza che, con l’addensarsi delle nubi nere del nazismo, perderà presto la propria innocenza. I cinegiornali narrano quello che sta avvenendo a non molti chilometri da Radegund: Hitler e la sua ascesa, il caos che sta per attanagliare l’Europa intera. La macchina da presa cesella con la consueta eleganza il piccolo mondo antico dei Jägerstätter, il contatto con la terra e con gli animali, i maialini e i vitelli da curare, la semina e il raccolto, l’idillico succedersi delle stagioni nei gesti quotidiani di una placida routine famigliare. Le campane della chiesa e i riti religiosi scandiscono i ritmi del lavoro e del riposo, in mezzo a quadri d’amore e fratellanza. Si intravede il trasporto dell’autore di Ottawa per un mondo pre-moderno che ha il merito di racchiudere i valori più autentici dell’esistenza, sconvolto dall’irrompere della modernità, in questo caso simboleggiata dal nazismo, che a sua volta di quel richiamo ai valori della civiltà pre-moderna aveva fatto una bandiera.  Il richiamo a un bucolico eden tra le Alpi dove cielo e terra si toccano, ai prati verdissimi, ai frutti donati dalla terra, attraversa tutto il film. Una eco che risuona mentre il virus dell’odio intossica anche la piccola comunità del villaggio. La prima parte di Hidden Life è un tripudio panteista: a curare la fotografia del film è Jörg Widmer, per la prima volta in questo ruolo per Malick, dopo aver manovrato la steadicam nei suoi cinque lavori precedenti.  

Franz è tenace, testardo, aggrappato al suo microcosmo come la sua fattoria alle pendici della collina. L’autore lo mostra dubbioso già durante l’addestramento, la camera indugia sul volto contrariato dalle immagini dei soldati tedeschi marcianti su mezza Europa. Non applaude, né gioisce per le vittorie, domandandosi cosa sia necessario fare se coloro che ci guidano sono malvagi. Il dramma intimo è narrato attraverso una persistente voce-off. Le lettere tra il protagonista e Fani sono la porta d’accesso alle loro anime, ai loro pensieri più privati. Ci rivelano dubbi, incertezze, sentimenti, ma soprattutto i principi che lo portano su una strada che tutti – il prete del villaggio (Tobias Moretti), il sindaco (Karl Markovics), il vescovo (Michael Nyqvist), sua madre – gli sconsigliano di intraprendere. Franz non verrà mai meno al dovere di resistere al male, Fani a quello di stargli accanto. Il dialogo per corrispondenza si fa meditazione, preghiera, tormento. Le individualità dei coniugi si fondono in un  flusso unico di parole e pensieri che (si) interroga sul senso della sofferenza e del sacrificio. La loro unione indissolubile, contro tutto e tutti, è fondata sull’amore reciproco e sulla profonda fede in Dio che li accomuna (“Se noi siamo fedeli a lui, lui sarà fedele a noi”, si dice Fani). Hidden Life è una suadente elegia della rettitudine morale di un uomo che lotta silenziosamente per custodire la grazia e l’umanità dell’esistenza.

Molto convincenti le prove dei due protagonisti, l’austriaca Valerie Pachner e il berlinese August Diehl, noto soprattutto, ironia della sorte, per aver interpretato un maggiore della Gestapo in Bastardi senza gloria di Tarantino e per il Marx de Il giovane Karl Marx di Raoul Peck.  

L’occhio di Terrence Malick frammenta il reale,  distorce lo spazio con il grandangolo, taglia e ricuce il mondo davanti al nostro sguardo con gli abituali netti stacchi di montaggio, cambia angolazione e prospettive sugli ambienti. Una continua scomposizione e ricomposizione del reale, accentuata dagli avvicinamenti-allontanamenti della macchina da presa, dai contrasti repentini tra staticità e mobilità, da quelli verticali tra alto e basso (cielo-terra) e tra la regia “aeriforme” delle sequenze nel villaggio e la linearità di quelle urbane. La direzione si fa univoca quando è associata alla modernità e alla morte, i carrelli rettilinei in avanti che seguono il treno che porta Franz verso il martirio o che raccontano l’angoscia che pervade i corridoi della prigione.

Le mani di Franz e Fani si fondono tra loro, e con la terra, in una simbiosi uomo-Natura, ribadita a più riprese dal regista. Resteranno solo quelle della donna a prendersene cura, serene, amorevoli, poi via via sempre più rabbiose, fino a quando l’erba e la terra diventeranno oggetto della frustrazione della donna.
A suo modo l’opera denuncia anche la responsabilità della chiesa e di tutte le autorità costituite per essersi piegate supinamente all’orrore. Non vuole uccidere innocenti, la presa di posizione è moralmente ineccepibile. In quel contesto diventa un’opzione radicale che rischia di incrinare il conformismo di Radegund, che non può dilagare, deve essere combattuta e piegata con ogni mezzo.

Franz è  un Cristo a cui si chiede di giurare fedeltà all’anticristo, il cui cammino-via crucis è costellato da innumerevoli prove. Punteranno, invano, sulla sua fede e sul suo senso del dovere. “Un uomo ha diritto di farsi condannare a morte? È una scelta che potrebbe piacere a Dio?” gli chiede il prete, impersonato da Tobias Moretti (ricordate Il commissario Rex?). “Nessuno è innocente, chi ha creato questo mondo ha creato  anche il male”, dice  il primo funzionario inviato a persuaderlo della insensatezza del suo rifiuto, interpretato da Matthias Schoenarts (che sarà anche nel nuovo film di Malick, The Last Planet, progetto a episodi sulla vita di Gesù). “Il mondo andrà avanti come prima, nessuno sentirà parlare della tua storia. Questo non cambierà il corso della guerra”, riafferma il pilatesco giudice Bruno Ganz, nella sua ultima, breve e sofferta interpretazione (anche l’attore svedese Michael Nyqvist è scomparso durante la post-produzione della pellicola).


Franz è straniero in patria, definito codardo e traditore da quegli stessi compaesani con i quali ha condiviso tutto, viene umiliato e pestato nel carcere di Tegel. La sua vita è simbolo del sacrificio cristiano (poi infatti riconosciuto dalle gerarchie ecclesiastiche), ma ad ispirarlo sono principi di matrice protestante come il libero arbitrio e la responsabilità individuale. In questo senso, si può leggere anche l’incontro tra il protagonista e il pittore di immagini sacre: queste ultime rappresentano solo illusioni, simulacri. L’unica chiesa a cui Franz risponde è la propria, intima, morale, non certo quella pronta a scendere a compromessi con il male. Quella che dovrebbe essere un rifugio per Fani, rimasta sola con le tre figliolette a Radegund, ma che invece le esclude dai riti della comunità, che asseconda le paure del paese, rendendole  oggetto, nel migliore dei casi, di sguardi truci e soprusi.

Malick sottolinea le fratture utilizzando attori di lingua tedesca che parlano la lingua nativa accanto a quelli che si esprimono in inglese, una scelta straniante che mostra gli abitanti di Radegund o gli aguzzini di Franz come fiere sbraitanti e smaniose. I cicli della natura non fanno caso “alla tristezza che ha attanagliato la gente”. “Il sole splende sul bene e sul male allo stesso modo”, scrive in una delle ultime lettere Franz, inondato di una nuova luce. La luce dei giusti. Gli animi più forti sono quelli che hanno attraversato il dolore. E nella sofferenza un semplice contadino ha trovato la forza per affrontare tutto, supportato dall’amore della famiglia. Fani gli sarà accanto fino in fondo. Durante l’ultimo, intenso, faccia a faccia, sotto gli occhi dei soldati, non gli chiederà di sottomettersi, di salvarsi rinunciando a se stesso, dirà solo “fa quello che è giusto”. Prima dell’atto finale che va in scena in uno squallido capannone. Una macabra rappresentazione, nascosta da un pesante tendaggio, una quinta dietro la quale si replica all’infinito lo spettacolo della morte.

Il bene crescente del mondo è parzialmente dipendente da atti ignorati dalla storia; e se le cose non vanno così male per te e per me come avrebbe potuto essere, si deve in parte al numero di persone che vissero fedelmente una vita anonima, e riposano in tombe dimenticate.
George Eliot

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