I Clowns di Federico Fellini, il meraviglioso tentativo di raccontare il reale attraverso il filtro dell’autore

by Giuseppe Procino

Un volo in perenne sospensione tra finzione e realtà, è questo i Clowns di Federico Fellini: un esperimento riuscito, un tentativo meraviglioso di raccontare il reale attraverso il filtro dell’autore. La televisione, questo “enorme occhio grigio” nei salotti degli italiani, deve essere sembrato al grande maestro un contenitore infinito di possibilità, di occasioni ma soprattutto di libertà espressiva scevra dalle pressioni del profitto e della produttività dell’universo cinematografico.

Fellini per la televisione fa Fellini, in tutto e per tutto, senza privare di estro, sogno, visione, il prodotto finale. Non è un compitino eseguito per portare a casa un buon voto, ma è un prodotto in grado di respirare, vivere come opera cinematografica di assoluta grandezza. D’altronde Fellini nel 1970, quando gira i Clowns, ha il privilegio meritatissimo di poter scegliere, di poter accettare o meno determinate proposte. La sua è la volontà di concedersi la leggerezza produttiva in favore della più sfrenata creatività.

Nel cinema del regista esiste un fil rouge costante, una profonda componente legata all’universo circense, si pensi a La Strada o alla parata di quel capolavoro assoluto che è 8 e ½. Il circo è lo stupore, riflette la meraviglia del bambino, diverte l’adulto. È da qui che parte il viaggio di Federico Fellini, dal luogo preferenziale dove i clown trovano la loro ragione d’essere, sotto un tendone che si compone per la prima volta d’avanti agli occhi del Fellini infante. È qui che il regista incontra i clown: i pagliacci, maschere esasperate delle sfortune e dei vizi dell’essere umano. Sin da subito è chiaro che l’opera televisiva è libera da qualsiasi etichetta, che non può esserci l’ansia e la paura di commettere un passo falso. È la libertà dell’artista che può giocare liberamente tra fiction e cinema del reale e che può sperimentare.

Tra le immagini di questo gioco c’è tutto il cinema del Fellini che è stato ma soprattutto quello che sarà: Amarcord che sembra trovare nella prima parte di questo viaggio nell’antica arte degli “augusti” e dei “clown bianchi”, un suo primo embrione, nel racconto del bambino che rivede, nei volti truccati, i personaggi che popolano Rimini. Ma la premonizione è anche nelle situazioni che il racconto evoca: il pettegolezzo maschile che anticipa la storia di Gradisca, il volto grigio quasi da non morto del gerarca fascista, il vigore sessuale di uno dei matti del villaggio. I Clowns è punto di contatto tra il prima e il dopo.

Da questo ricordo si sviluppa così la ricerca di Fellini, tra personaggi che hanno fatto grandissima l’arte del clown, filmati di repertorio di vere leggende e poi storie, come quella dei tre Fratellini impegnati anche nel sociale, “prestando servizio” per truppe di guerra, ospedali e manicomi. Tutto in perenne rimbalzo tra verità e ricostruzione. In questo gioco, Fellini ribalta in maniera imprevedibile le regole del documentario, distruggendo con intelligente ironia gli stilemi del reportage e dimostrando di potersi permettere di non prendersi troppo sul serio. D’altronde l’unico realista è il visionario ed allora esiste un’unica maniera che il grande maestro conosce per poter essere fedele alla realtà: capovolgerla. Lo fa in maniera consapevole ed efficace, ricostruendo, intervistando e citando se stesso, quasi a voler sottolineare l’importanza che la più antica arte circense ha avuto sulla sua formazione di autore. È un Fellini consapevole della sua grandezza, che non ha bisogno di giustificazioni e può fare quello che vuole, almeno in questo caso, rifiutando almeno all’apparenza di voler raccontare qualcosa di importante, dichiarando l’inesistenza di un messaggio preciso infilando la testa in un secchio.

Questa afasia, è solo un’apparenza perché nei fatti I Clowns è un pretesto per raccontare anche altro: il vissuto dell’autore, ma soprattutto è una riflessione sulla memoria. É questa la componente più interessante: l’arte che è specchio dei tempi e nello specifico il mondo contemporaneo del grande Federico che non è in grado di comprendere la grandezza che si cela dietro il trucco e i nasi in plastica. Così la società è pronta a organizzare il funerale del clown, la sua definitiva dipartita, programmando di fatto la fine per un’arte nobile e antichissima, fatta di storie che devono essere raccontate. Il circo diviene così riflesso del mondo anzi il mondo, la vita nello specifico, per Fellini è circo, malinconica esibizione, in cui gli esseri umani si dividono tra “Augusti” e “Clown bianchi”, i primi diversi dai secondi per la componente elitaria, tutti sotto il controllo imprevedibile del destino.  

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