I ‘Perfect days’ di Wim Wenders a Tokyo. E il sorriso gentile come il regalo più prezioso da dare e ricevere

by Claudio Botta

Shibuya è uno dei quartieri più all’avanguardia di Tokyo, teatro di un progetto avviato nel 2018 dalle locali amministrazione ed associazione turistica e dalla Nippon Foundation -una delle più ricche e influenti tra quelle che operano nel welfare- e partito due anni dopo, che ha coinvolto sedici tra le più celebri archistar, artisti ed interior design del paese (i premi Pritzker Tadao Ando, Shigeru Ban, Toyo Ita e Fumuhiko Maki compresi) per riprogettare i servizi igienici pubblici secondo standard innovativi di bellezza, design, accessibilità e sicurezza, e realizzare 17 bagni in grado di stravolgere qualsiasi canone e ripensare la stessa idea di fruizione, condivisione e rispetto di un bene pubblico. The Tokyo Toilet si è così articolato in cinque differenti punti, perfettamente integrati nel contesto (nei bagni trasparenti disegnati da Shigeru Ban presso l’Haru-no-Ogawa Community Park il vetro ha tonalità che dal verde sfumano nel blu, in armonia con la natura circostante, mentre quelli nel Yoyogi Fukamachi richiamano invece i colori del vicino parco giochi, con sfumature di arancione, rosa e viola: sono solo due degli esempi da ammirare).

In un secondo momento, è stato coinvolto Wim Wenders per raccontare questa esperienza e isolarla dallo sforzo complessivo di rendere ancora più attrattivo il Giappone per le Olimpiadi poi posticipate di un anno (dal 2020 al 2021) per la pandemia. E il grande regista tedesco, da anni ormai lontano dai fasti del suo passato, profondo conoscitore della cultura nipponica come mostrato dai precedenti documentari Tokyo-Ga del 1985 dedicato al regista UzoYasuijro e Appunti di viaggio su moda e città del 1989 sullo stilista Yohji Yamamoto, ha scelto di non girare -in appena 17 giorni- altri documentari da 4-5 minuti come richiesto dai committenti, ma un film. Un gioiello (scritto con Takuma Takasaki) che ha sorpreso il mondo nella presentazione all’ultimo festival di Cannes, e ha conquistato il pubblico italiano dall’uscita in sala lo scorso 4 gennaio, data d’inizio di un passaparola che si sta rivelando anche nel tempo dei social la più efficace forma di promozione. Un gioiello di sottrazione che equivale però ad eliminazione del superfluo ed esaltazione dell’essenziale, la quotidianità vissuta come una conquista e non una condanna.

Il protagonista Hirayami (interpretato da uno straordinario Koji Yakusho, meritatissima Palma d’oro) vive in un ambiente frugale e sobrio, in cui musicassette e libri sono gli oggetti più preziosi, e le sue giornate sono scandite secondo una sequenza ben precisa e organizzata: il risveglio, il tatami da ripiegare e le piante da innaffiare con cura, i baffi da sistemare, la vestizione, lo sguardo pieno di stupore e gratitudine rivolto al primo sole del mattino, il caffé al distributore automatico, il viaggio in furgoncino blu accompagnato da musica che rappresenta un patrimonio collettivo da generazioni (The House of the Rising Sun degli Animals, Redondo Beach di Patti Smith, Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, (Sittin’On) The Dock of the Bay di Otis Redding -che morì tre giorni dopo averla incisa-, Brown Eyed Girl di Van Morrison possono bastare?) da ascoltare su cassette originali degli anni Sessanta e Settanta. L’arrivo al lavoro, nei bagni pubblici appunto da pulire con la massima accuratezza, senza alcuna frustrazione. La pausa per un tramezzino consumata contemplando una quercia, osservando i fasci di luce filtrati tra le foglie e scattando foto con una macchina analogica, il saluto a un senza fissa dimora che si produce in buffe pose plastiche. Il ritorno a casa nel pomeriggio, e poi la passeggiata in bicicletta verso un altro luogo pubblico per rilassarsi, il pasto serale nel solito ristorante, il rientro e la lettura dei romanzi prima di dormire (William Faulkner, Patricia Highsmith, giovani autrici giapponesi), edizioni economiche acquistate sempre nella stessa libreria. E di notte, sogni e visioni in bianco e nero (create e filmate da Donata, la moglie del regista), a volte nitide e a volte confuse. Proiezioni dal passato che contrastano la luce del presente squarciata da ombre fluttuanti, elemento caratterizzante da sempre il cinema di Wenders. Altri personaggi minori permetteranno di interpretare i silenzi di Hirayami, e di capire che “quella” vita è una scelta, non un ripiego. In bilico tra tradizione e spiritualità disseminate ovunque, e contemporaneità. Una scelta che permette di immergersi pienamente nel “momento” («adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta») e di apprezzarlo davvero, in equilibrio, senza nostalgie, rimpianti, paure. Sono appunto ‘Perfect days’ anche se si susseguono senza colpi di scena, senza brividi da ricercare con affanno e ostinazione, segnati dalla bellezza della semplicità, dell’umiltà, del sorriso gentile come il regalo più prezioso da dare e ricevere. E conquistano gli spettatori perché permettono ad ognuno di fare i conti con i propri giorni imperfetti pieni di tanto ma nei quali qualcosa manca.

Una lezione di grande cinema, che non ha bisogno di effetti speciali, montaggi frenetici, dialoghi serrati per attirare l’attenzione e mantenerla per due ore. Di fotografia sublime, emozionante e non semplicemente stilosa. Di vita, nei contrasti, nelle sfumature, nella sequenza di riflessioni che offre. Bentornato, Wenders. E grazie davvero per quei 17 giorni di riprese che su grande schermo la perfezione l’hanno avvicinata e mostrata come da tempo non accadeva, nel buio di una sala.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.