Il popolo delle formiche e il successo della 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia

by redazione

Frenetiche, mai immote, ordinatamente composte verso la meta, ogni mattina, a partire già dalle 7,30 fino a notte fonda. Sono le ‘formichine accreditate’ che era possibile vedere dall’alto mentre si dirigevano nelle 11 sale della Mostra del Cinema (Palabiennale, Sala Giardino, Sala Casinò, Sala Grande, Sala Pasinetti, Sala Volpi, Sala Perla, Sala Zorzi, Sala Laguna, Sala Corinto e il Lazzaretto ove si celebrava il Venice immersive). Non per citare il bel film di Amelio (“Il signore delle formiche” sull’ignobile caso Braibanti) ma questa è l’immagine che sarà venuta in mente alle dodicimila persone che, come noi, hanno affrontato il tour de force della Mostra. 53 film visti in dieci giorni, confronti tra esperti di cinema provenienti da ogni parte del mondo, visione dei film in sale con migliaia di persone che non fiatano, non disturbano, non sgranocchiano, non schiamazzano, non emanano luci irrispettose del buio in sala dal loro smartphone (inutile chiedersi, ma non possiamo non ostinarci a farlo in quanto crediamo che l’essere umano sia dotato di intelligenza, perché guardare un piccolo schermo quando se ne ha di fronte uno gigantesco che incanta e fa sognare) facendoti riassaporare il gusto di vedere un film in serenità sul grande schermo. Per questo la biennale cinema diventa un appuntamento imperdibile per tutti coloro che studiano e amano la settima arte. Si programma di anno in anno il viaggio, l’alloggio, gli impegni di lavoro o di studio. Ci si affeziona alla gente del posto, malgrado taluni lidensi (i più sprovveduti) non sopportino queste migliaia di persone con un cartellino al collo.

Già la preapertura, il 30 agosto, con la visione del film del 1925 restaurato, Stella Dallas, accompagnata dalla musica eseguita da un ensamble d’archi con piano diretto dall’autore, è stata una perla che non dimenticheremo.

A parte Luca Guadagnino, nessun film italiano ha lasciato il segno. Lo stesso Barbera lo aveva detto in apertura: un Paese come il nostro non può permettersi di fare oltre 200 film all’anno. I finanziamenti di Stato sono necessari per l’industria cinematografica italiana, ma vanno gestiti con grande oculatezza. Altrimenti viene meno la qualità. La giuria, composta da Julianne Moore, il premio Nobel Kazuo Ishiguro, il regista argentino Mariano Cohn, l’italiano Leonardo Di Costanzo, la vincitrice del leone d’oro dello scorso anno Audrey Diwan, l’attrice iraniana Leila Hatami e lo spagnolo Sorogoyen lo ha confermato. I premi sono stati ampiamente condivisi anche dagli accreditati che avrebbero, forse, riconosciuto qualcosa alla straordinaria interpretazione di Brendan Fraser in un ruolo difficilissimo, quello del professore obeso incapace di relazioni affettive familiari stabili ma desideroso di lasciare qualcosa di buono alle generazioni future e al film “Argentina, 1985” sul processo Vileda. Il successo di Tàr, un film su un’affermata direttrice d’orchestra, del film irlandese con la straordinaria coppia Collin Farrell e Brendan Gleeson sugli spiriti di Inesherin, la Medea naufragata dell’apprezzatissima Alice Diop, regista africana già molto conosciuta dagli esperti, alla sua prima prova nel cinema di finzione, (su Mubi esiste già una piccola rassegna di suoi film documentari), il riconoscimento a Jafar Panahi, regista in cattività per aver osato criticare il regime degli ayatollah (“No bears”), il leone d’oro al documentario di Laura Poitras su Nan Goldin e lo scandalo Sackler (“All the beauty and the bloodsheed”) sono tutti riconoscimenti approvati dal pubblico degli accreditati (stampa, produzioni, docenti e studenti universitari, critici cinematografici, gestori di sale d’essai). In mezzo anche le ultime chicche seriali di due registi danesi di culto come Lars von Trier (purtroppo non presente alla Mostra perché colpito dal morbo di Parkinson) e Nicolas Winding Refn (dai fan chiamato NWR).

Due parole anche sui due film che in qualche modo hanno parlato della terra di Capitanata. Il film di Mezzapesa era candidato alla selezione Orizzonti. Per raccontare la quarta mafia, quella foggiana e garganica, avremmo preferito un film sul genere di ‘Anime nere’ di Munzi (e forse anche la giuria, vista l’assenza di riconoscimenti). Secco e asciutto anziché un film dal dichiarato intento di strizzare l’occhio al pubblico. Ci auguriamo che il pubblico risponda quando arriverà nelle sale, per non vanificare almeno questo obiettivo. Il film di Ferrara su Padre Pio è ancor più deludente, forse perché stiamo parlando di un regista di livello planetario. Ad inizio film l’episodio che ci ha fatto comprendere cosa avremmo dovuto aspettarci. Al rientro a San Giovanni Rotondo dei reduci dal primo conflitto mondiale, viene dato al sindaco un foglio con i nomi dei caduti. Una sua concittadina gli si avvicina per sapere se suo marito è in quella drammatica lista. Non ci crederete, ma il sindaco le chiede come si chiama il marito! 

A parte questi errori di sceneggiatura, la storia di Padre Pio appare anche totalmente slegata da quella dei moti popolari insurrezionali contro gli sfruttatori latifondisti cui il regista vuole porre particolare attenzione. Film deludente come pochi. Occorre rimboccarsi le maniche e insistere nel richiamare le grandi produzioni, anche internazionali, perché c’è tanto da raccontare del Gargano e di questo angolo di mondo. Il successo del piccolo film irlandese lo dimostra. Occorre solo saper raccontare (e scrivere bene) una storia che possa colpire nel segno, con le maschere giuste. 
In definitiva, una Mostra all’altezza delle aspettative ed un sistema di prenotazione dei posti in sala che, con qualche nuovo piccolo accorgimento, può finalmente rendere la vita meno difficoltosa per queste formichine operose e giudiziose. 

All’ottantesima edizione!

Stefania D’Alessandro e Tommaso Campagna

foto di Stefania D’Alessandro

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