“Il problema più grande legato all’Ilva è la rassegnazione”: Danilo Caputo racconta “Semina il vento” il film su Taranto e xylella

by Luana Martino

‘Semina il vento’, secondo film di Danilo Caputo, prodotto da Okta film, esce oggi in sala, dopo la proiezione all’ultima Berlinale e al Bif&st – Bari International Film Festival.


Caputo, tarantino di nascita, torna così nella sua terra natia per raccontare la questione meridionale, intesa come dipendenza economica e culturale dal pensiero atavicamente radicato.
Fulcro del film, infatti, sembra essere il desiderio di emancipazione a quella rassegnazione che la routine quotidiana fa emergere.
La narrazione parte dalla cronaca italiana ed è relativa all’epidemia di Xylella Fastidiosa, responsabile della distruzione di migliaia Ulivi e giunge sino alla drammatica situazione legata all’Ilva e all’accettazione da parte dei lavoratori di condizioni difficili.
Per parlarci di questi drammi, il regista pugliese ci racconta di Nica (la Yile Vianello di Corpo Celeste, brava come il resto dei suoi colleghi) che, studentessa di Agronomia, invece di arrendersi all’idea di abbattere le piantagioni di Ulivi colpiti a morte da un insidioso parassita, combatte con tutte le forze per evitare la vendita della terra, cercando nella scienza e non nelle consuetudini le contromisure utili a sconfiggere l’avversario.

Semina il vento riesce ad arricchire il filone cardine della sua narrazione con gli echi di una cultura ancestrale e magica fatta di simbolismo e di cose non dette. Nel lavoro di Caputo si alternano momenti di vita quotidiana fatti di verità celate, di rapporti deteriorati ma anche di voglia di cambiamento e di rivalsa a momenti onirici in cui, ad esempio, l’abbraccio da parte di Nica ai secolari Ulivi, regala emozioni al fruitore. Lei, intenzionata a cambiare il corso delle cose, opponendosi all’ineluttabilità degli eventi, si ritroverà in un paesino che aveva lasciato anni prima per andare a studiare. Qui, il suo percorso di riappropriazione delle origini e della terra sarà più complicato del previsto.

Per parlarci del suo lavoro, abbiamo intervistato il regista Danilo Caputo.

 ‘Semina il Vento’ a Panorama Internazionale all’ultima Berlinale e ora al Bifest – nella tua terra natia.

“Berlino ha rappresentato un grande traguardo e siamo stati davvero orgogliosi di presentare il film nella Sezione Panorama. Poi, dopo sei mesi, è davvero emozionante tornare in sala e farlo a Bari soprattutto. In primis perché io sono Pugliese, gran parte della troupe, poi, è barese ed è stato, quindi, un bellissimo modo per condividere questo momento con loro e, in più, è stata una bellissima vetrina per il film che sta avendo grande risonanza”.

Sembrano esserci due tipi di parassiti in Semina il vento. Uno animale e l’altro indentificato nella presenza incombente dell’Ilva.

“Si, l’Ilva è molto presente ma ho voluto fare una riflessione diversa. Ho iniziato a pensare da qualche tempo e, in maniera più significativa, da quando c’è stato il referendum consultativo nel 2013, che il problema più grande legato all’Ilva fosse la rassegnazione. Cioè il fatto che molte persone si siano rassegnate a questa vita e non riescano ad immaginare un modo diverso di concepire la loro esistenza. Non immaginando un’alternativa sono disposte ad accettare tutto, a qualsiasi condizione. Questa rassegnazione mi sembrava un elemento importante di cui parlare. Lo si evince anche dalla parole di Paola (amica della protagonista Nica) “C’è gente che è inquinata in testa”; volevo, quindi, parlare di questo aspetto e di un personaggio (Nica) in grado di sfondare quel muro di rassegnazione e quell’inerzia.
Dunque l’Ilva c’è ma c’è soprattutto questa rassegnazione perché, credo, che non si possa parlare di una senza parlare dell’altra”.

Tornare, dunque, come una sorta di ‘redenzione’. Sembra quasi facile fuggire dalla propria quotidianità fatta anche di problemi e tornare pensando di avere la consapevolezza del tutto. O forse l’allontanarsi e poi il ritornare alle proprie origini enfatizza la bellezza del nuovo sguardo di chi ancora non si è rassegnato alla vita.

“E’ vero Nica ha bruciato i ponti con la famiglia e con la sua migliore amica. Adesso torna e tornando vede le cose con occhi diversi, con occhi ancora non rassegnati. Quello che per tutti è normale per lei è, invece, uno scandalo, è qualcosa che le provoca uno shock e prova, dunque, a cambiare le cose. A me piaceva l’idea che lei tornasse da un’altra città perché anch’io ho vissuto per anni fuori dalla Puglia; ancora oggi alterno periodi in cui sono a Carosino (paese in provincia di Taranto) a quelli in cui abito all’estero. Il fatto di vivere fuori fa sì che quando si torna si notino, inevitabilmente, cose che gli altri (quelli che sono rimasti) non vedono più”.

Secondo te, dunque, è fondamentale questo ritorno alla terra? Dove terra è intesa, da un lato, con un’accezione figurata e, dall’altro, come elemento fisico al quale Nica è estremamente legata.

“Non posso dire se sia fondamentale per tutti però per me lo è stato. Io sono andato via, per la prima volta, a diciassette anni, poi verso i ventisei mi sono reso conto che non conoscevo realmente il mondo dal quale volevo fuggire quando ero adolescente. C’è stato, quindi, un percorso di riappropriazione, di riscoperta che mi ha, poi, portato anche a realizzare i miei lavori. Ad un tratto della mia esistenza volevo fuggire ma sono sempre attratto da quelle che erano le mie origini, una sorta di rapporto e legame di odio e amore sempre presente”.

Per cambiare le cose occorre, dunque, una vera e propria ribellione? Nica in realtà, almeno inizialmente, prova ad attuare un cambiamento grazie alle sue competenze professionali.

“Io credo che una ribellione occorra, non occorre certo la violenza ma è fondamentale spezzare delle dinamiche. Il rapporto con le generazioni precedenti – in questo caso sono i genitori di Nica – non è sempre facile e noi viviamo in un particolare momento storico in cui le generazioni che ci hanno preceduto hanno più soldi di noi, hanno avuto un lavoro più stabile e quindi, spesso, i giovani non hanno voce e non riesco ad imporre dei nuovi valori e un nuovo modello con la natura. In questo caso occorre, dunque, una ribellione, obbligare la gente a porsi dei problemi e ad affrontare delle questioni”.

Semina il vento ha i modi e i toni della favola, una favola in cui il mistero ha la sua importanza. Hai scelto di utilizzare un’atmosfera mistica e ancestrale. Perché questa forma di narrazione?

“Sono stato attratto da un mondo che non conoscevo bene. Mi hanno sempre affascinato alcuni aspetti della tradizione legati ad un mondo mistico. Volevo parlare di Taranto e di quello che è accaduto e sta accadendo agli ulivi, volevo parlare del rapporto con la natura ma non desideravo che Semina il vento fosse un film di denuncia e che, quindi, la realtà schiacciasse il contenuto del mio lavoro. Ho deciso, così, di introdurre elementi ancestrali o comunque ‘simboli’ -come, ad es., la figura della nonna di Nica o la gazza con la quale la protagonista instaura un particolare rapporto-  affinché il film non risultasse una didascalica denuncia. Questi elementi portano un po’ d’inspiegabile in un mondo in cui tutto sembra così arido e duro”.

Quali sono i tuoi punti di riferimento cinematografici? E per realizzare Semina il vento ti sei lasciato ispirare da un tipo di cinema in particolare?

Mi sono approcciato al cinema abbastanza tardi e i due registi che mi hanno fatto innamorare sono stati Tarkovskij eKurosawa. Invece, mentre realizzavo Semina il vento ho visto tanti film in cui la natura è trattata in maniera diversa, come un organismo vivente e non come semplice paesaggio.

Stai lavorando ad un nuovo progetto?

Si, l’unica cosa certa, per ora, è che sarà sempre ambientato a Taranto, per il resto è ancor a in fase embrionale.

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