Il Signor Diavolo, nelle acque venete di Pupi Avati ristagnano il male e l’horror

by Antonella Soccio

Mibac e Rai Cinema finanziano il ricercato ritorno all’horror, dopo quarant’anni da La casa dalle finestre che ridono, di Pupi Avati con “Il Signor Diavolo”, un film di genere, in cui il grande regista dosa con maestria l’autorialità e sequenze stracult, con l’avvio col vomito verde e la piccola vittima sbranata, immersa tra le bambole, come nella migliore tradizione dell’horror di tutti i tempi, o con le tante scale, la botola e alcune porte che cigolano. Per finire alla porta dell’Inferno, che è un sotterraneo della Chiesa e che porta al buio delle tenebre, proprio sotto il tabernacolo, luce per eccellenza.

Siamo nel cattolicissimo Veneto del Dopoguerra, tutto chiesette, perpetue e suorine, che la Dc e Alcide De Gasperi non possono perdere e consegnare al pericolo rosso comunista per colpa di uno strano caso demoniaco, a metà tra superstizione e possessione, che imperversa tra le paludi di Comacchio e Venezia. La Chiesa è accusata di aver istigato un ragazzino, Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini), ad uccidere un suo coetaneo deforme, Emilio, in cui, secondo molti, si celerebbe il demonio.

Emilio, il diverso, ha dentatura e setole da verro ed è figlio di una ricchissima possidente, Clara Vestri Musy (interpretata da una magnetica e seducente Chiara Caselli con calza smagliata), che ha sempre aiutato la Democrazia Cristiana, ma che dopo l’assassinio del ragazzo si è spostata dalla parte dell’ateismo e degli anticlericali. Il paese lo incolpa del terribile delitto nei confronti della sua sorellina. Un omicidio satanico, che fino alla fine del film lascerà il pubblico col fiato sospeso.

Da qui la necessità per il Ministero di inviare Furio Momenté, un ispettore a risolvere il caso e ad insabbiarlo.

Nel viaggio splendido in treno, che solo i film di provincia di Pupi Avati sanno rievocare, Momentè legge tutto l’interrogatorio del ragazzo, emaciato e sveglio, reso al magistrato (interpretato da un assai verosimigliante Massimo Bonetti), in un flashback che coinvolgerà anche il suo rapporto col vecchio padre in ospedale e che si esplicherà nella sua funesta verità solo nell’esagerato finale del film.

Simboli, suggestioni, la religio arcaica e contadina, l’ostia sacrificata nel pastone del verro, la sacrestia infestata dallo spirito viscido e crasso del sagrestano reso da un eccellente Gianni Cavina, che sa rendere la sua ambiguità fino alla fine: il film è uno scrigno di racconti popolari padani, in una campagna umida, la cui laguna immobile fa da specchio e da stagno alle paure, ai tabù, alla vergogna, all’ignoto, al rimosso. Il tutto in un’epoca di contrapposizione tra la fede scaramantica e superstiziosa e la ragione atea del sol dell’avvenire.

Esiste il Diavolo? Certo che esiste e va chiamato con riverenza, va chiamato Signore, dice il sagrestano ad un ragazzo che ne mette in dubbio l’esistenza perché il padre, comunista, gli ha detto di non crederci.

Non solo Cavina, ci sono anche Lino Capolicchio, Andrea Roncato e Alessandro Haber, attori feticcio di Avati, in una scena da horror padano che incanta sia quando sulla scena ci sono i ragazzi in bicicletta a rincorrere la ragazza dall’incarnato perlaceo sia quando il funzionario vaga per Venezia alla ricerca della verità.

Il pubblico respira i colori e il mood dei luoghi lacustri. Il nero, il grigio, il bianco delle suore e degli abiti talari, il verdognolo si attaccano addosso. Il rosso del sangue della culla appare negli a parte, come e più di un’allucinazione, che coglie chi guarda il film e mai i protagonisti. Il lungometraggio del grande maestro è anche un viaggio nel tempo nel Veneto del Dopoguerra, dove fiatano ancora atmosfere fasciste. Qua e là, sono nascosti autocitazionismi e fascinazioni felliniane da non perdere. Fotografia indimenticabile di Cesare Bastelli, altro abituale collaboratore di Avati, padano doc, nato a Modena. Musica di Amedeo Tommasi, spettrale ed efficacissima.

Nelle sale dal 22 agosto, per chi vuole viaggiare nell’horror, senza troppo disgusto e ripugnanza, e in una pianura d’acqua che non c’è più.

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