Il successo del cinema francese a Venezia non è il frutto di una circostanza fortuita

by Tommaso Campagna

È terminata la 78^ Mostra internazionale dell’Arte cinematografica. Ennesima edizione di successo che ridona slancio vitale al Cinema di qualità. Per oltre dieci giorni (dal 31 agosto all’11 settembre) oltre 9000 accreditati, tantissimo pubblico e numerosi media hanno occupato quasi ogni spazio del Lido di Venezia. Dalle 8,00 del mattino alle 2,00 di notte proiezioni non stop nelle diverse sale dislocate su tutta l’isola.

Gli accreditati si sono disputati i posti dimezzati nelle varie sale alzandosi alle 6,00 del mattino per riuscire a strappare un posto per la proiezione delle 8,00 dei tre giorni successivi. Un articolato e farraginoso sistema (i posti venivano messi a disposizione 74h prima della proiezione) ha costretto gli accreditati a contendersi con un clic, quasi in un duello in un film di Sergio Leone, i posti ridotti del 50% nelle varie sale. Spesso restando a mani vuote. Molto dure, ma meritate, le critiche al provider del servizio Boxol, scelto dalla Biennale, per le ultime due edizioni. Alla Mostra hanno partecipato, quest’anno, anche due nostri studenti universitari. L’obiettivo è di raddoppiarne il numero per la prossima edizione.

Ma veniamo ai film. Molto alto il livello delle opere in concorso e molto nutrita la partecipazione italiana. 

Devo però aggiungere che abbiamo ancora molta strada da percorrere. La Francia, ancora una volta, ci mostra qual è la funzione primaria del cinema, oggi. Risvegliare le coscienze, entrare nei problemi della società, fare domande, anche se non si hanno le risposte. 

Noi siamo stati capaci solo di fare autoanalisi (il film di Sorrentino), raccontare un fatto storico in chiave quasi documentaria (“Il buco”), entrare negli abissi della mente di un professionista (“America latina”), un biopic su un grande protagonista del nostro teatro popolare, Edoardo Scarpetta (“Qui rido io”) o girare un film magniloquente, nel modello dei supereroi delle major americane (come in “Freaks out” di Mainetti: di tutto abbiamo bisogno in Italia fuorché di registi giovani che scimmiottano gli Usa). 

I film che hanno lasciato in me qualcosa di più duraturo sono stati i film francesi. La Francia, con sagge politiche e con la sempre più capillare diffusione della cultura cinematografica nelle scuole e nelle università, raccoglie i frutti di un’attenzione che ha pochi riscontri anche in contesti tradizionalmente più avanzati come gli Stati Uniti.

E la qualità dei film francesi è stata altissima sia nella sezione principale, sia in quella di Orizzonti. Nella sezione principale erano in lizza: “L’événement”, film vincitore meritatamente del Leone d’oro, che affronta di petto il tema dell’aborto come scelta libera di una giovane donna nella Francia degli anni ’60; “Un autre monde” che racconta i disastri di un appoggio incondizionato ai valori di una società ultraliberista; “Illusions perdues”, magnifico adattamento dal capolavoro di Balzac.

Ma la Francia ha riscosso ampio successo anche nella sezione Orizzonti con due premi importanti (migliore interprete femminile e migliore regia) a “À plein temps” del franco-canadese Éric Gravel. Un film alla Ken Loach (ma con maggior ritmo) su una donna che lotta con i denti per garantire a se stessa un futuro professionale e la crescita di due figli piccoli. Film che ha riscosso grande immedesimazione (ed empatia) da parte del pubblico presente. Ma c’erano anche un gran film ‘politico’ come “Les promesses” e, fuori concorso, “Les choses humaines”, sul tema dello stupro e del finto rispetto della donna anche in un Paese occidentale attento ai valori delle pari opportunità.

Film importanti che hanno saputo raccontare, con misura e grande rispetto delle differenti prospettive, i problemi del lavoro in una società sempre più neoliberista e quelli della condizione femminile nell’era contemporanea.

Notevoli anche i film dell’est europa: Żeby nie było śladów (Leave No Traces) di Jan P. Matuszyński, Vidblysk (Reflection) di Valentyn Vasyanovyc e Kapitan Volkogonov Bezhal (Kapitan Volkogonov Escaped) di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov. 

Due film, fuori concorso, che mi resteranno nel cuore sono due doc musicali. Il primo è “Becoming Led Zeppelin” visto al Palabiennale con Jimmy Page in sala e l’altro è lo splendido ritratto fatto da Tornatore del Maestro Morricone. Un saggio sulla fondamentale importanza della musica nella settima Arte.

Ma a Venezia si è anche discusso del futuro del cinema e, in particolare, della crisi degli esercenti cinematografici e del sempre più crescente numero di sale che chiudono i battenti. Il covid19 ha solo acuito un problema già esistente. La crisi richiede un ripensamento complessivo del sistema. A tal proposito, si riporta uno stralcio di un bell’articolo uscito recentemente sulla rivista Micromega di Silvano Curcio: “In questa condizione, chiaramente diventa imprescindibile e decisivo lo studio, la sperimentazione e l’adozione di nuovi modelli di impostazione e di gestione dei cinema esistenti in una più estesa strategia di rigenerazione urbana. La strada della salvaguardia e del rilancio implica infatti una profonda trasformazione che parta dal superamento della tradizionale quanto ormai obsoleta offerta standard a cui siamo tutti abituati (biglietto, popcorn, film) e punti invece a forme innovative di fruizione delle sale in grado di arricchirle di nuove capacità attrattive. Diversificando e ampliando l’offerta di servizi e trasformando le sale stesse in hub polifunzionali. Presidiando fortemente l’attività cinematografica, pur attraverso un’indispensabile innovazione dei criteri di selezione e programmazione dei film ed un altrettanto necessaria rimodulazione quantitativa e qualitativa di spazi, superfici e schermi (oggi di norma commisurati a non più realistiche quantità di spettatori). Ma al tempo stesso integrandola e ibridandola – in rapporto alle diverse potenzialità strutturali, funzionali e spaziali delle sale – con altre attività e/o servizi culturali, sociali e commerciali: centri di sperimentazione e produzione artistica, laboratori teatrali, sale musicali, sale studio, media-biblioteche, librerie generalistiche e specialistiche, spazi per i diversi tipi di ristorazione, spazi commerciali, spazi per attività artigianali, spazi per il coworking, spazi per start up, spazi per workshop e conferenze. Con programmazioni distribuite nell’arco dell’intera giornata e indirizzate ad una gamma quanto più estesa e diversificata di fruitori. Con modelli di business che contemperino un equo e legittimo profitto dei privati ed un altrettanto equo e legittimo profitto sociale esteso a tutta la collettività. Favorendo occasioni e relazioni di partnership tra proprietari di sale, operatori commerciali e soggetti sociali e culturali presenti sul territorio. Facendo leva sulle immense energie contenute nella società civile (a cominciare da quelle dei giovani con le loro esigenze di socializzazione insoddisfatte e le loro competenze spesso inespresse); su indispensabili ma profondamente rinnovate politiche di supporto da parte delle istituzioni pubbliche centrali e locali (ispirandosi, ad esempio, agli strumenti legislativi e meccanismi di sostegno economico da tempo adottati con successo per i cinema francesi); su un altrettanto rinnovato approccio imprenditoriale da parte degli esercenti cinematografici, associato a finora mai adeguatamente espresse capacità progettuali in linea con i tempi; su un’azione sinergica di promozione e valorizzazione del patrimonio delle sale che veda coinvolte costantemente e attivamente tutte le categorie di operatori della filiera cinematografica di mercato.”

Una utopia? Forse, ma occorre tentare. E la partnership pubblico-privato tra la Fondazione Apuliafelix e l’Università di Foggia che ha già dato vita al cineclub universitario Cinemafelix, andrà certamente in questa direzione. 

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