Jojo Rabbit, la fiaba antinazista di Taika Waititi

by Giuseppe Procino

Il piccolo Johannes “Jojo” Betzler vive in Germania durante il secondo conflitto mondiale assieme a sua madre Rosie. Suo padre è al fronte, disperso o molto probabilmente disertore. La sua fede nel regime nazista è così radicata da aver individuato come suo amico immaginario una versione quasi fumettistica di Adolf Hitler.

Jojo si sforza di essere il nazista perfetto ma la sua natura, assolutamente innocente, gli impedisce di concepire qualsiasi forma di male. Questa sua attitudine alla bontà, fraintesa come codardia, gli fa guadagnare l’epiteto di “coniglio”. Nonostante questo, la fiducia nel suo migliore amico immaginario resta intatta. Un giorno però scopre che tra le mura di casa, sua madre nasconde Elsa, una ragazza ebrea. Costretto a mantenere il silenzio e in cambio di delucidazioni sulla cattivissima natura degli ebrei, Jojo inizia a far visita alla ragazza. I due diventeranno amici.

Jojo Rabbit arriva finalmente nelle sale italiane, il 16 gennaio, dopo l’anteprima all’ultimo Torino film Festival e con un tempismo perfetto per fregiarsi di sei candidature ai premi oscar, tra cui quella per il miglior film.

Il perché di questa candidatura nello specifico, sarebbe difficile da ricercare in una dimensione decontestualizzata rispetto al clima politico in atto negli Stati Uniti e proprio per questo, Jojo Rabbit diviene emblema di un cinema in grado di dire qualcosa in maniera chiara e lucida, che prende una posizione netta rispetto alla deriva dittatoriale del governo Trump.

Il nazismo diviene emblema dell’eterno ritorno, fantasma della storia che si ripete. Da questo punto di vista la nuova pellicola di Waititi trova la sua ragione d’essere. Non dimentichiamoci che i premi Oscar sono premi preferenzialmente dedicati alle produzioni Americane e allora solo così può essere chiaro il motivo di questa candidatura, perché Jojo Rabbit non è un film riuscito o per lo meno non risponde alla perfezione alle aspettative o alle intenzioni dichiarate.

Chi si aspetta un film cattivo, grottesco, un prodotto satirico intelligente e sfrontato, un attacco al potere in grado di scuotere lo spettatore, resterà profondamente deluso. Il nuovo film di Waititi non è una pellicola che brilla per genio se non per qualche spunto e manifesta una sostanza derivativa da altro, una sorta di senso del già visto, che ci riporta in maniera inequivocabile all’estetica creata da Wes Anderson e che si dichiara, in questo e in maniera palese anche nella scelta della colonna sonora.

Non stiamo parlando di un brutto film, badate bene, ma di un prodotto che potenzialmente poteva essere altro e che invece si accomoda su scelte di facile digeribilità e decide di raccontare una storia in cui (come cantava Niccolò Contessa qualche anno fa proprio in una sua canzone dedicata al regista dei Tenenbaum) “i cattivi non sono cattivi davvero”.

La mancanza di un vero antagonista non permette la genesi di una reale tensione da sciogliere, di un momento di pathos concreto. Eppure nei titoli di testa è racchiuso un altro tipo di aspettativa, in quel montaggio geniale, quelle immagini di una Germania cieca, folle e in totale adorazione accompagnate dalle registrazioni di un’esecuzione dal vivo di una versione in tedesco di  I Want To Hold Your Hand dei Beatles.

In questo gioco tra due simboli assoluti di fanatismo, due esempi iconici del culto della personalità, nel bene in un caso (i Beatles) e nel male nell’altro (Hitler), si nasconde con un’efficacia spiazzante, la sintesi perfetta del fanatismo politico, un invito a non confondere spettacolo e realtà, una riflessione quasi obbligata in un mondo, quello contemporaneo, in cui nostalgie del passato, sotto sembianze differenti, tornano con irruenza a incantare folle oceaniche. Le ideologie non sono musica, le idee sono pericolose e in questo melange Taika Waititi colpisce nel segno.

Il resto della pellicola purtroppo si muove in maniera affaticata tra alti e bassi, rimanendo sempre su quel confine fastidioso tra commedia e satira educata. La satira denuda il potere, lo rende piccolo, insignificante ma affinché questo accada il male deve essere mostrato, ripreso nel suo agire e non solo negli effetti.

Trarre una pellicola da Il cielo in gabbia era un’impresa abbastanza coraggiosa e complessa. Jojo Rabbit del romanzo di Christine Leunens mantiene una leggera filigrana in trasparenza, tanto che viene da chiedersi perché dichiararne l’ispirazione se di storie di tedeschi che nascondevano gli ebrei, la storia ne è, per fortuna, pienissima.

La pellicola di Waititi si muove verso altri messaggi, verso altri punti di arrivo, con finalità diverse e presupposti, che potevano essere davvero geniali ma che si arrestano su intenzioni di largo consenso. Il protagonista diventa un bambino, non più un adolescente, questo si offre allo spettatore come enorme metafora del potere, corruttore delle menti più pure. Le modifiche, almeno nel soggetto, lasciavano intendere una riflessione feroce, sconvolgente. D’altronde con i tempi sempre più bui che corrono, forse, avremmo avuto bisogno di un prodotto del genere e non di un’ennesima commedia drammatica dalla lacrima facile.

Il problema di Jojo Rabbit è che anche il momento di pathos mal restituisce l’emotività, forse perché nello spettatore persiste la convinzione di essere di fronte a altro cinema, a un’altra intenzionalità e resta l’attesa per il momento giusto, in cui l’aspetto satirico emergerà in tutta la sua  cattiveria.

Il film di Waititi è così un prodotto indefinito, né carne né pesce, senza entusiasmo e con qualche battuta che strappa un sorrisetto. Va bene comunque, perché il messaggio è ben veicolato, ma il fastidioso fantasma della commedia per famiglie aleggia in maniera insistente. Sembra quasi che si avesse il timore di offendere qualcuno, nazisti compresi. La stessa figura di Hitler risulta scialba, poco convincente e scritta in maniera poco efficace. Waititi poteva fare di meglio, ce lo ha dimostrato ampiamente con “What we do in the shadows”, ma forse le sue ultime scelte registiche e le prossime (tornerà a dirigere Thor) sono un segnale di un cambiamento di rotta, verso un cinema più accondiscendente e meno coraggioso o irriverente.

Siamo lontani anni luce dalla genialità di Chaplin e Brooks e vicinissimi al solito prodotto creato per regole e stilemi, un compito fatto a regola d’arte seguendo le indicazioni del docente. Non lo elevano a prodotto più consistente nemmeno le ottime interpretazioni (Scarlett Johansson su tutti) e un finale poetico e destabilizzante sulle note di una versione in tedesco di Heroes di David Bowie. Peccato.

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