La dea fortuna, Ozpetek regala uno sguardo accogliente su genitorialità e amori usurati dal tempo

by Antonella Soccio
La dea fortuna

È più di un Ferzan Özpetek shakerato l’ultimo suo film in sala, “La dea fortuna”. Tornano condensati, sviscerati e riaggiornati tutti i temi a cui il regista e sceneggiatore turco ci ha abituato negli ultimi 20 anni. L’omosessualità, l’amore, il maschile e il femminile che si mescolano, l’amicizia allargata che diventa la famiglia più vera, la trappola della famiglia d’origine che respinge e attrae, la malattia, la morte, il valore iconico della maschera, l’imago senza tempo dell’arte, l’occhio e lo sguardo accoglienti. Attori feticcio compresi, come la sua immancabile Serra Yilmaz, la grande-piccola madre saggia.

Si ride e si piange, come in un grande melò. Guarda la persona che non vuoi dimenticare e poi chiudi gli occhi per trattenerla per sempre, è uno dei concetti chiave, mutuati dal tempio e dalla dea.

Non c’è la stessa sontuosità di Napoli Velata né c’è l’allegria sfrontata della luce pugliese di Mine Vaganti o la tragica fiducia nel futuro, “il soffio di vento”, che illude come in Saturno Contro e neppure la diversità che spiazza e commuove de Le fate ignoranti. Tutti sono un po’ più poveri, uniformati dalla crisi e dalle scelte della vita da cui non si può più tornare indietro, perché il tempo è quasi finito, scivolato, senza accorgersene. “Siete già vecchi”, dirà la bambina protagonista in una scena.  È il caso che governa, la fortuna degli antichi, celebrata nella scena al Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Anche i nobili sono costretti ad affittare le ali delle loro magnifiche ville sul mare per sbarcare il lunario e i potenziali radical chic hanno perso l’allure, gli artisti poi, il bellissimo amante interpretato da Matteo Martari (una delle voci più belle e sexy del nostro cinema) sono trasgressivi solo a metà. In più c’è anche il rito dell’unione civile, consumato come un matrimonio come un altro, con torte nuziali a normalizzare e a sancire cosa può diventare l’amore.

Non per i due protagonisti, però, una coppia omosex non sposata, ma consolidata e affaticata dalla tenerezza routinaria, dal rancore reciproco, dai silenzi noncuranti e disattenti e dai tradimenti, dal sesso che si è anestetizzato. Una coppia che non sa più dire cosa siano l’uno per l’altro. Fratelli, amici, cosa?

Fanno mestieri più ordinari rispetto a Luca Argentero o Favino. Non sono capitani di industria agroalimentare come il Preziosi leccese. Un azzeccatissimo, popolare, ironico e profondo Edoardo Leo è l’idraulico Alessandro, smontando ogni cliché machista, mentre Stefano Accorsi è Arturo, un traduttore precario e sottopagato, noioso e insoddisfatto. Entrambi gli attori sono perfetti e credibili: Accorsi riesce nella sua recitazione a dare visibilità anche nel corpo costipato al suo fallimento e alla sua frustrazione, derivante dalle scelte dell’amore di 15 anni prima.

Tra di loro il consueto carillon di amici ozpetekiani, anche loro meno chic, vicini di condominio e commercianti, come in un antico villaggio mondo rassicurante e spesso comico. E l’inevitabile danza collettiva dei suoi film, stavolta sul terrazzo e sotto l’acqua, che confonde, unisce, diverte e dà senso alla seducente e miracolosa vita di cui canta nel soundtrack dei titoli di coda Diodato. C’è spazio anche per qualche citazione musicale, divertente, come quando si canta in cortile Chihuahua dell’icona transgender Mina, canzone già utilizzata in Romanzo Criminale dal Dandy, competitore sentimentale dell’Accorsi poliziotto.

Il film comincia con una soluzione visiva à la Almodovar, con i primi piani su un buffet matrimoniale same sex. Ma a riprenderli non è la maestria dell’arte come nel regista spagnolo, ma un cellulare: le immagini e le inquadrature sono sfocate, da foodporn e banali, come è banale spesso la quotidianità.

Irrompono in tale consuetudine romana l’amica Annamaria, una Jasmine Trinca sicura e in parte, e i suoi due figlioletti Martina e Alessandro (i piccoli Sara Ciocca ed Edoardo Brandi). La malata baronessa Annamaria, fuggita da ragazzina da una madre strega sicula interpretata da Barbara Alberti, molla i due bambini alla coppia, sconvolgendo il loro fragile equilibrio, fatto di sopportazione reciproca.

Immagina anche di poter affidare, in caso di morte, i due bambini all’amico Alessandro, suo amore mancato. La paternità, il tema della genitorialità è affrontato con una naturalezza, che disturberà i salvinismi attuali, con la delicatezza dell’amore, del pezzo di strada, del camminare accanto. La forza de La dea fortuna sta proprio in questa grande sensibilità: la vita arriva per caso, non ci sono ruoli o stereotipi che possono costringerla in uno schema.  

Il film ha poche scene madri, confermando l’idea, soprattutto nel bellissimo primo tempo, di una vita in cui accadono poche cose realmente importanti, come canta Mina nella stupefacente canzone Luna Diamante di Ivano Fossati tratta dal loro ultimo album, che farà da sfondo onirico al viaggio in traghetto verso la Sicilia. “Perfino lontano da niente succede qualcosa, ma non qui”. Poche scene madri, ma tutte potentissime, nonostante qualche inceppo nella sceneggiatura. In particolare la lite tra i due bambini, che finalmente distoglie l’attenzione dei due adulti dal loro egoismo solipsistico e dai loro battibecchi sterili.

L’amore scelto nei giorni della passione, seppur screziato dal tempo, vince ancora. E si rinnova, mano nella mano (unica intimità concessa da Ozpetek ai suoi due protagonisti… ma non è stare mano nella mano la forma di sessualità sacra più autentica?), grazie alla responsabilità.

Non voglio ballare
c’è solo mezza luna stanotte
niente può accadere
perfino lontano da niente succede qualcosa
ma non qui

Mi serve qualcuno
che pensi a me come si pensa a una sposa
allora portami a casa
dove eravamo rimasti
la gente parlava e beveva
l’amore era quasi innocente

C’è una luna turchese e diamante stanotte
che può spezzarmi il cuore
tu con le tue mani
io con i miei occhi
con la mia bocca
tornando a casa
aiutiamoci a ricominciare
vestita come una signora
solo per farmi amare
ma non sono sicura
che non sia tardi stanotte
per tutti e due

E tu perché non parli?
una parola sospenderebbe il mio rancore
io non so più quello che dico
umiliata in silenzio
forse… strappata dal mio sentimento
so, so che anche in piena luce
saresti il mio primo pensiero
fin troppo vivido e forte
come il bagliore del giorno
ho dato troppa importanza… a questo amore.

E c’è una luna turchese e diamante stanotte
che ferirebbe ogni cuore
si, sono triste e mi manchi
anche se ti cammino accanto
sempre caro sei stato al mio dolore
dammi solo un po’ d’acqua
perché ho aspettato tanto
perché ho vissuto sempre
tra speranza e incertezza
per poi tornare da te

E tu luce di luna d’acciaio e diamante
che dal cielo spezzi i muri e le catene
guarda questo mio amore così cieco e costante
senza quasi ragione, che si possa capire
se i giorni da adesso, cominciassero di nuovo
che importerebbe tutto quello che ho detto
non è tardi stanotte
nemmeno per me

Luna Diamante, Ivano Fossati

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