La famiglia e gli stritolanti ingranaggi emotivi: Open Door e Skandinavian Silence al Festival del Cinema Europeo

by Nicola Signorile

La famiglia: guscio protettivo o prigione senza via di scampo?. Può essere entrambe le cose, anche contemporaneamente. Il cinema non ha mai smesso di esplorarne le contraddizioni e gli stritolanti ingranaggi emotivi. Lo fanno anche molti film del come sempre interessante concorso per l’Ulivo d’Oro della 21a edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce, che in particolare si focalizzano sui rapporti di fratellanza.

Di sorellanza nel caso di Open Door dell’esordiente albanese Florenc Papas, già passato in concorso al 25° Sarajevo Film Festival. Le pellicole del Fce permettono di aprire finestre su paesi poco glamour e sulle loro cinematografie per lo più ignote al grande pubblico.  Il road movie scritto da Papas, insieme a Ajola Daja, si innesta in una società albanese profondamente patriarcale in cui i ruoli famigliari sembrano cristallizzati. Ma qualcosa inizia a incrinare lo status quo.

 Rudina (Luli Bitri) è una donna sposata, lavora in una fabbrica e si prende cura degli anziani suoceri, oltre a crescere praticamente da sola il piccolo Orion. Suo marito lavora all’estero, si vedono di rado. Si sentono spesso, litigando quasi sempre per le pretese del coniuge. Rudina attende l’arrivo della sorella minore Elma (Jonida Vokshi) che vive e lavora in  Italia: insieme come ogni anno, andranno a trovare il padre nel loro paese natale, in occasione dell’anniversario della morte della madre. La giovane Elma  aspetta un bambino e non è sposata. La notizia precipita nello sconforto la sorella, già oberata di responsabilità. Per Rudina è l’ennesimo pensiero che va ad aggiungersi a una lunga lista. Ritiene la sorella irresponsabile, ingenua. Nel corso di un lungo viaggio in auto emerge il problema più grande: come reagirà il padre, uomo severo e tradizionalista, alla notizia? La relazione tra le due donne è profonda, sfaccettata. Rudina sembra più la madre di Elma che una sorella maggiore. Le due attrici sono brave a costruire una intesa credibile ricca di sfumature e contrasti. Papas indaga con mano sicura le psicologie di due figure femminili che, pur adulte, non riescono ad affrancarsi dal giogo della famiglia d’origine. Al quadro di sorellanza contribuiscono momenti di tenerezza e autentica empatia come il siparietto canterino in macchina (poteva mancare?) o la scena in  cui condividono il primo calcio della nascitura, nella cucina della casa paterna. Si avverte la solitudine di Rudina, pur circondata continuamente da persone. II problemi degli adulti ricadono sul piccolo Orion, lasciato spesso da solo.

Viene usato al meglio l’aspro paesaggio montuoso dell’Albania; le strade irregolari, la roccia tutto attorno all’auto, location principale del film in cui prende forma lo stratagemma di Rudina per raggirare il padre: ingaggiare un amico che finga di essere il padre della bambina. Piano improbabile, ma che dà l’idea dell’immobilismo di una società patriarcale con  padri severi, spesso costretti  a emigrare per lavorare e mantenere le famiglie, madri operose e dalla pazienza infinita e figli che cercano di vivere la propria vita ma sentono di dover compiacere i genitori e soddisfare le loro aspettative. “Lui deve decidere la data delle nozze”. “Perché non vivere coi tuoi genitori per sempre?”.  “La moglie deve prendersi cura dei suoceri”. “Il primo figlio deve essere maschio”. I valori tradizionali dei genitori entrano in rotta di collisione con quelli dei figli, l’Albania del Novecento, in cui la donna era ancora vittima di pregiudizio, si scontra con le istanze di una società più moderna e che cerca di aprirsi. L’incontro con l’anziano padre è un viaggio a ritroso ad inizio secolo, ma rappresenta anche un teatro delle apparenze che Elma, la figlia più piccola, sceglie di rompere in un finale che dà speranza.

Fratello e sorella sono invece i protagonisti di Skandinavian Silence dell’estone Martti Helde, coproduzione Estonia-Belgio-Francia. Ancora due fratelli, ancora un viaggio in auto. Stavolta non sappiamo nulla di loro, solo quello che si riesce a cogliere qua e là dagli alternati soliloqui. Tom (Reimo Sagor) sale in macchina di sua sorella Jenna (Rea Lest). Guidano attraverso paesaggi invernali desolati. Una natura maestosa sembra osservare l’auto inoltrarsi per l’unica strada esistente. Tom inizia a parlare del passato, fa riferimento a un atto violento verificatosi anni addietro; Jenna ascolta, impassibile. Dopo un po’, la scena si capovolge. Si torna al principio, ma è Jenna a parlare e Tom a guardarla senza dir nulla. Il silenzio dice più di quanto dicano le parole, il non detto costruisce un personale castello di pensieri e prospettive. È il dialogo a permetterci di riempire i buchi di una storia, sembra volerci dire il film. Il passato si ricompone (forse) attraverso le diverse prospettive, non certo una novità al cinema, ma utilizzata con abilità da Helde che rende la pellicola misteriosa e affascinante. “Il silenzio ci si addice, è quello si sente quando chiudi gli occhi ma sei sveglio, è fragile, noi scandinavi lo conosciamo bene, è un mezzo di comunicazione”. Da parte dello spettatore, il silenzio e la narrazione resettata accrescono la curiosità. C’è stato un abuso ai danni di Jenna, Tom è appena uscito di galera. I dettagli compongono un mosaico famigliare non confortante, che ha lasciato molte scorie nelle vite di fratello e sorella che si ritrovano dopo anni. “Chi è stato davvero libero in questi anni”, si chiede Jenna. C’è il tormento nei loro sguardi, ma Helde utilizza il minimalismo narrativo come antidoto efficace al sentimentalismo o al facile mèlo. Nell’abitacolo i primi piani con camera fissa puntellano i discorsi dell’uno/a e gli sguardi di reazione dell’altra/o, all’esterno la camera volteggia tra montagne innevate e fiumi in perenne movimento; ad avvolgere il tutto le eleganti musiche del compositore Mick Pedaja.

La vivida fotografia in bianco e nero di Erik Põllumaa e Sten-Johan Lill, premiata dalla giuria del Fce, regala potenti immagini: su tutte, l’apertura su un uomo che cammina nella neve in una immensa foresta e gli alberi solitari neri su sfondo bianco, “come se con il loro silenzio proteggessero il passato”. Il paesaggio nordico è maestoso, il silenzio investe con la sua forza la natura e la vita stessa dei protagonisti. Si carica di un’infinita varietà di sentimenti, di speranza, di tristezza, di rimpianto, di sofferenza, di imbarazzo. I due attori Reimo Sagor e Rea Lest attraversano molti di questi, trasformando il duetto in una gara di espressività, soprattutto quando la scena richiede di recitare non parlando. Finale in crescendo in cui, in vista di un futuro comune per Tom e Jenna, la vita si fa improvvisamente a colori.

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