La Napoli di Paolo Sorrentino e la morte non vista che dà vita al suo cinema

by Antonella Soccio

Se dovesse superare la selezione nella shortlist entrando nei film stranieri candidati all’Oscar, “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino vincerebbe a mani basse la statuetta. E con il regista la vincerebbe Napoli, così amata dagli americani e così diversa nel film del regista partenopeo da quella di carta dei bestseller di Elena Ferrante.

Il mare non bagna Napoli, è vero, ma non per chi come Sorrentino ha vissuto quasi quarant’anni al Vomero in un condominio perfetto e borghese. Dalla collina e dalla Floridiana il Golfo è più vicino, come uno stato d’animo permanente, leggiadro. Una discesa a mare e agli inferi.
Il mare è il cielo e l’orizzonte di Fabietto Schisa, il protagonista dell’autofiction interpretato dall’attore rivelazione Filippo Scotti.
Il film, che gode di un cast stellare ed estremamente in parte- dai genitori Toni Servillo e Teresa Saponangelo ad una spettacolare e intensissima Luisa Ranieri fino ad un Lino Musella straordinariamente vero nella sua rappresentazione del disagio mentale- è un concentrato di napoletaneria, ricolmo di simboli, riflessioni concettuali sulla “storia di chi resta e chi fugge”, maschere e ritualità.

Nei contributi extra visionabili su Netflix, Sorrentino ammette di pescare tra i pastori del presepe napoletano i suoi personaggi e parte della sua poetica ridondante ed estetizzante. Non solo il Munaciello, qui simbolo di una giovinezza eterna beneaugurante in contrasto con chi giovane, dopo la perdita dei genitori avvelenati dal monossido di carbonio, non lo è stato mai. Ma anche Maradona, un personaggio in contatto col divino e divinizzato a tal punto da diventare per Sorrentino un taumaturgo di vita e di integrità morale. “Non ti disunire”, dice Capuano al giovane Fabietto che gli confida di voler fare cinema.

Come scrive Christian Raimo tutti i film di Sorrentino parlano di come si sopravvive al trauma della sua giovinezza.
Ed è con la giovinezza che si rapporta costantemente l’adolescente in un plot che va oltre il romanzo di formazione. Ora nel rapporto col fratello che annega il dolore del lutto nella superficialità ludica ed edonistica di una ricerca della felicità fatua, ora con l’eccentrica baronessa che gli regala la speranza del futuro accompagnandolo nella sua prima volta con la scena cult della spazzola, ora con l’amico contrabbandiere, che gli rivendica la sua spavalderia giovane.

“Ma lo sai come fanno i motoscafi offshore quando vanno a 200 all’ora? Tuf, tuf, tuf”, gli dice guardando le stelle che dettano la via ai marinai che tornano verso il Golfo di Napoli. Fabietto, che piangerà per la perdita dei suoi solo tra i coetanei festosi in cortile, non schiva la vita come Zerocalcare, ma vi libra sopra.

“Non me li hanno fatti vedere”, il trauma della scomparsa dei genitori alla vita e alla vista è per il regista una delle ragioni profonde del suo cinema, che fa il paio con il capolavoro, C’era una volta in America, che Fabietto tenta di vedere nel corso del film senza mai riuscirci.
Intimo e sentimentale, È stata la mano di Dio coglie tanti sguardi. Da quello erotico nei confronti della meravigliosa zia Patrizia, l’unica concessione alla Grande Bellezza, a quello innamorato mediato dallo schermo della tv per il calciatore argentino semidio fino alla visione rubata con tanto di binocolo estivo dei nuovi parenti acquisiti e sbeffeggiati.
Anche la baronessa lo addestra affinché guardi “al futuro”.
“La realtà è scadente”, allora meglio inventarla con l’occhio dell’immaginazione.

Il film vive sicuramente due parti ben distinte. La prima, assolata e divertente, in cui si presentano i personaggi familiari grotteschi e stralunati e la placida vita napoletana tra ferie, incombenze domestiche, tradimenti e doppiezze.
La seconda nuvolosa e dai toni cobalto, dopo il dramma di Roccaraso, in cui la vita si chiude. In manicomio per zia Patrizia, in carcere per l’amico o in un’isola, Stromboli, per il fratello, in bagno per la sorella.

La fuga è l’unica via d’uscita al mare che inghiotte al ritmo struggente delle musiche di Lele Marchitelli. Tante le scene madri nel film che tocca più di una volta le corde del sublime.

«Tutto ciò che può destare idee di dolore o di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Il terrore è l’emozione sublime per eccellenza.»

Burke

Dal finestrino del treno in partenza per Roma, Napoli è un ricordo dolce e pieno. È essenza dell’anima con Pino Daniele in sottofondo. Napul’e’.

Pendavo di andare a Roma a fare il cinema così capisco se ci sono tagliato”
“A Roma?… La fuga… So’ palliativ’ d’o’ cazz’. Alla fine torni sempre a te, Schisa. E torni qui al fallimento, perché tutt’ nu fallimento, tutt’ na cacata. He capit’ o no? Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città.

No, nessuno se ne va mai. Per fortuna Paolo Sorrentino ci è rimasto con anima e sguardo.

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