“Papusza – La bambola spezzata” il film di Joanna Kos e Krzysztof Krauze

by Tommaso Campagna

Credevo di aver visto tutti i grandi film sulla cultura rom, da “Gadjo dilo” (1997) di Tony Gatlif a “Il tempo dei gitani” (1989) di Kusturica, da “Ho incontrato anche zingari felici” di Aleksandar Petrovic (1967) fino ai film del nostro Soldini. Ma nessuno eguaglia “Papusza” (2013) della coppia, non solo artistica, composta da Joanna Kos e Krzysztof Krauze. 

 Racconta la storia di Bronislawa Wajs (1908-1987), da tutti conosciuta come “Papusza” che in lingua rom significa “bambola”.  Sua madre l’aveva partorita da sola sulla terra ghiacciata. E la chiamò, nonostante la volontà contraria della sua comunità, ‘Papusza’ perché era rimasta incantata da una bambola che aveva visto in una vetrina a Lublino ove si trovava durante la gravidanza. Una donna del suo popolo esclamò: “Questa bambina o sarà un orgoglio per l’umanità o recherà grande vergogna alla nostra comunità”.  Nessuna profezia fu più vera perché Papusza fu entrambe le cose.

Fin da piccola fu attratta dai libri che rubava e leggeva, nascosta alla sua gente. I rom ripudiano la memoria e la scienza. La memoria, perché sarebbe fonte di preoccupazione costante ricordare le persecuzioni di cui sono state vittime le popolazioni rom nel corso dei secoli. La scienza perché capace di snaturare e sradicare la cultura nomade. I rom sono per tradizione popolo intento alla lavorazione dei metalli e alla musica. Quasi tutti i rom sono musicisti e musicista era anche il marito di questa donna, uomo molto più anziano di lei, arpista, a cui lei fu venduta all’età di quindici anni e al quale ella promise che il suo ventre si sarebbe chiuso, non donandogli prole. I rom sono una rigida società gerontocratica patriarcale (secondo alcuni linguisti, rom significa “uomo”, “marito”), senza norme e senza dimora. I vecchi sono venerati e hanno potere politico e giudiziario. In simile cultura, Papusza fu presto etichettata come una ribelle testarda.

Ma Papusza era anche bella, affascinante e curiosa.  

Disse di sé: “Il mio patrigno era un ubriacone e un giocatore d’azzardo, mentre mia madre non sapeva cosa significasse leggere o scrivere né cosa una bambina dovesse imparare. E allora come ho imparato? Chiedendo ai bambini che andavano a scuola di mostrarmi come scrivere le lettere. Rubavo sempre qualcosa e gliela portavo così poi loro mi insegnavano in cambio. Ed è così che ho imparato le lettere a, b, c, d e così via.”

Iniziò a scrivere versi, versi semplici che sgorgavano come acqua limpida dal suo cuore e dalla sua mente. Divenne la più grande poetessa rom del dopoguerra, affrontò le persecuzioni naziste e quelle della sua gente perché fu accusata di aver ‘tradito’ la loro cultura. La accusarono anche di essere stata la causa del giro di vite del governo polacco sul nomadismo rom.

Riuscì a salvarsi laddove 35.000 zingari polacchi, vittime del Porrajmos, la Shoah di rom e sinti, finirono nei lager. Cercò di afferrare, con i suoi versi, la natura, il cielo, il lento procedere del suo popolo sui sentieri del mondo, un mondo che stava scomparendo per la violenza nazifascista. La sua poesia diventa “memoria” del suo popolo. La poesia è ‘ciò che mi consente di ricordare domani quel che ho vissuto ieri”. Ma questo non è possibile per un popolo che usa la stessa parola, “tisha”, per dire ‘oggi’ ma anche per dire ‘ieri’.  Fu giudicata ed estromessa. Visse esiliata dalla sua gente e dal mondo, subì povertà, solitudine, follia. 

Nel 1949 un etnologo polacco Jerzy Ficowski, un ‘gadjo’, uno straniero, vissuto due anni sui carri gitani, dopo averla conosciuta e, apprezzata la sua arte poetica, decise che i suoi versi dovessero essere conosciuti.

Le sue ballate, le sue canzoni (perché i versi di Bronislawa Wajs sono intrisi di cultura rom e quindi profondamente musicali) appaiono nel 1950 sulle colonne della rivista polacca Problemy. Grazie al successo della pubblicazione, Jerzy Ficowski divenne un accademico. Papusza invece impazzì al dolore per aver tradito la sua gente. Decise quindi di non scrivere più, bruciò le sue ultime poesie. 

 La bambola era definitivamente spezzata.

Nata e vissuta in un tempo sbagliato, Papusza (interpretata da Jowita Budnik, bravissima) ha conosciuto solo emarginazione e rifiuto, vittima anche lei, come il suo popolo, di pregiudizi e persecuzioni. Due volte odiata e disprezzata, come rom e come traditrice del popolo rom.

Il film di Joanna Kos, Krzysztof Krauze è un gran bel film, in uno splendido bianco e nero, che si attaglia perfettamente agli scenari di una terra magnifica ma, al tempo stesso, inospitale. Terra di lunghi spazi infiniti e di antiche mura che costeggiano città polacche pregne di storia ove le carovane di zingari, senza memoria e senza storia, si trovano a passare senza mai fermarvisi. La musica di Jan Kanty Pawluskiewicz è un capolavoro nel capolavoro. Se trovate questo film, non lasciatevelo sfuggire. In questi giorni su MUBI, la piattaforma del cinema di qualità, dei capolavori anche sconosciuti, ove ogni giorno si fanno meravigliose scoperte che rendono meno angosciosa la nostra reclusione da covid19.

Guardo qui, guardo là –

tutto ondeggia! Il mondo ride!

Un mare di stelle di notte!

Ciarlano, ammiccano, brillano.

(Da Guardo qui, guardo là, di Papusza, traduzione italiana di Paolo Statuti)

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