«La realtà può essere molto più spaventosa della finzione.» Roberto De Feo racconta A classic horror story

by Nicola Signorile

La realtà sa essere molto più spaventosa della finzione. Il nuovo horror si sporca le mani con la società contemporanea, con le sue follie quotidiane, con il terrificante della porta accanto. Una cosa si può dire con certezza su A classic horror story,  il nuovo film diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli, freschi vincitori del premio per la migliore regia al Taormina Film Fest: non è il classico film dell’orrore.

Decisamente spiazzante, ricco di spunti tematici e visivi, la disavventura di un gruppo di cinque carpooler diretti in Calabria sembra portarci in luoghi consueti per gli appassionati del genere per poi disorientarci, “ingannarci” sapientemente, forse esplicitando troppo nel finale quello che vuole dire. Il film, prodotto da Colorado per Netflix (dove è disponibile dal 14 luglio) e scritto dai due autori baresi con Lucio Besana, Milo Tissone e David Bellini, arriva a due anni da The Nest, esordio alla regia di un lungometraggio per De Feo, artefice di un piccolo-grande caso di film di genere italiano che ha messo d’accordo pubblico e critica ed è stato venduto in molti paesi del mondo, dopo la presentazione al festival di  Locarno e  l’uscita in sala a Ferragosto 2019. A classic horror story lancia anche un messaggio chiaro e tondo a una parte del pubblico italiano: ne abbiamo discusso con Roberto De Feo in una chiacchierata ad alto tasso di spoiler: lettura molto sconsigliata a chi non ha ancora visto il film.

De Feo, quindi gli italiani lo sanno ancora fare l’horror?

Ci proviamo, il pubblico italiano è sfiduciato rispetto al genere”.

Da dove nasce questo pregiudizio?

Secondo me da 30 anni di film a basso budget poco credibili. Dopo le opere di Dario Argento e Pupi Avati si sono più realizzati pochi horror all’altezza, poche produzioni importanti, così il genere nell’immaginario del pubblico è diventato di serie B. Specifico però che il messaggio che lanciamo è rivolto non al pubblico in generale, ma a quella parte di spettatori che ha l’abitudine di criticare i film senza guardarli,  che usa le classiche frasi fatte, tipo “noi italiani non siamo bravi a fare gli horror”. Abbiamo dedicato loro la scena post credit”.

Ci sono horror che salva del passato recente?

Sì ce ne sono stati. Ricordo Shadow di Federico Zampaglione o At the end of the day di Cosimo Alemà, credevo che avrebbero segnato una rinascita per il genere, ma così non è stato”.

Ma ci sono molti altri elementi nel film che guardano al presente e all’Italia di oggi.

Volevamo soprattutto parlare di spettacolarizzazione della morte e di pornografia del dolore, fenomeni molto presenti nella nostra società da cui prendiamo le distanze, sempre con una buona dose di ironia. Pensa alla gente che davanti a un incidente stradale sceglie di fare i video col cellulare invece di interessarsi alle eventuali vittime (vedi la scena finale del film) o ai programmi televisivi, spesso i più seguiti, che morbosamente costruiscono intere settimane su fatti di sangue. Molte persone non guardano i film horror ma passano ore ad ascoltare dettagli macabri sui delitti”.

Ma, come giustamente hai premesso, non prendiamoci troppo sul serio. Il film nella prima parte è una maxi-citazione dell’horror americano anni ‘70-‘80, in cui è divertente cercare di districarsi.

E’ stato divertentissimo giocare con i rimandi ai film con cui siamo cresciuti da The Evil Dead (La casa) di Raimi a Non aprite quella porta, da Le colline hanno gli occhi a The Wicker man, ma c’è anche Scream per il riferimento meta-cinematografico. La prima parte è una sorta di inganno per lo spettatore, una narrazione costruita su tutti i cliché del genere. Il classico gruppo di persone in viaggio su un camper, il classico animale morto in mezzo alla strada, l’incidente nel classico luogo isolato, l’auto in panne e i cellulari fuori uso,  la classica casa spaventosa. Poi il film prende una strada propria”.

Che riprende la leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, spesso usata da Roberto Saviano per spiegare le origini delle mafie.

(Ricordiamola in breve: nella Spagna del XV secolo, Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono tre fratelli cavalieri. Un giorno, la loro sorella viene violentata da un protetto del Re e loro si vendicano uccidendo lo stupratore. Per il delitto vengono condannati a una lunga prigionia sull’isola di Favignana. In cella stabiliscono le regole di una nuova società basata su leggi di sangue e di guerra che avrebbero consentito a tutti i futuri adepti di crescere e moltiplicarsi. Liberati dopo trent’anni di prigionia, i tre cavalieri si separano: Osso resta in Sicilia per divenire il fondatore di Cosa Nostra, Mastrosso si accasa in Calabria dove getta le basi per la creazione della ‘Ndragheta, Carcagnosso risale lo stivale fermandosi in Campania dove diede vita alle primordiali strutture malavitose della Camorra).

 “Questa storia è un elemento nuovo che non è mai stato utilizzato nell’horror italiano. Nel film la leggenda è rappresentata sotto forma di culto religioso, con i “Tre Cavaleri d’anuri” (Tre cavalieri d’onore) che appaiono come tre dei/demoni venuti da un altro mondo, tre figure sacre venerate da una misteriosa comunità di persone, nel Sud Italia. I padri fondatori delle mafie sono un punto fondamentale per il primo capovolgimento di genere”.

Il primo di una serie.

Volevamo creare una linea narrativa che cambiasse genere continuamente, una montagna russa. Puoi restarci male o apprezzarlo, ma non è il classico horror. Secondo me e Paolo c’è un pubblico dormiente che non vede l’ora di incazzarsi o esultare e Netflix ci ha dato la possibilità di provarci. All’inizio nelle nostre intenzioni il film era diverso, si prendeva più sul serio. L’occasione però era troppo ghiotta per partire dall’Italia per smuovere le coscienze di questo pubblico, provando a portarlo in luoghi diversi dal solito”.

Come sono i primi feedback?

Per qualche giorno è stato il secondo film più visto nel mondo: ci sono arrivati i complimenti del boss di Netflix. Siamo nella top 10 mondiale da quando è uscito. Comunque vada, rappresenta un’opportunità incredibile di raggiungere il pubblico di tutti i paesi, siamo stati primi in Brasile e in altri paesi del Sudamerica, in Giappone Germania, Polonia”.

Come nel tuo esordio, è evidente l’attenzione allo stile e ai dettagli. Come ci avete lavorato?

La parte più bella è stata la preparazione. Netflix ci ha dato carta bianca, una libertà quasi assoluta, permettendoci di creare un luna park dell’orrore. Tutto ancora più divertente perché vissuto con Paolo. È importante costruire un impianto visivo di livello internazionale, un’estetica degna dei classici citati. C’è un pubblico attento a scovare dove sei di serie B, il cinema americano è un termine di paragone costante. Abbiamo cercato di essere attenti a ogni aspetto, dalla tavola di colori all’oggetto in fondo all’inquadratura: l’obiettivo è creare un universo terrificante credibile. Il dettaglio fa la differenza per la credibilità di una produzione di genere”.

Altro pomo della discordia: la recitazione nei film di genere. Anche questo aspetto è molto curato, con ottime prove di Peppino Mazzotta, uno dei carpooler, Francesco Russo, Fabrizio, il conducente nerd appassionato di horror e, su tutti, della protagonista Matilda Lutz, ormai la nuova scream queen del cinema mondiale, dopo The Ring 3Revenge di Coralie Fargeat e il prossimo Final Cut, zombie comedy del premio Oscar Michel Hazanavicius. Ma con lei vorrei parlare delle scenografie e in particolare della casa degli orrori!

“Per la scelta della classica casa abbandonata, ovvero la location principale del film, il riferimento principale non poteva che essere La Casa di Sam Raimi. Abbiamo avuto la possibilità di costruirla appositamente per il set, cercando di renderla esteticamente unica. Il tetto a punta e la vetrata superiore romboidale servono a donarle elementi di sacralità, in modo da rievocare anche l’immagine di una chiesa.  Abbiamo poi scelto di dipingere la parte superiore del tetto esterno e le pareti interne di rosso, per suggerire l’idea che la casa stessa sanguinasse”.

La casa immersa in una labirintica Foresta Umbra, per la prima volta utilizzata nel cinema horror.

La scelta è frutto della mia voglia di tornare a girare nella mia regione. Quella enorme foresta così fitta si prestava benissimo, ma la Puglia può diventare qualsiasi  cosa. In questo caso il Gargano e la Foresta Umbra sono luoghi magnifici. Le aree dove girare le abbiamo scelte dopo sopralluoghi durati più di otto mesi, ringrazio l’Apulia Film Commission per il supporto costante. Qui è più facile girare per me, sono più rilassato”.

Un’altra stilettata la lanciate alla megalomania dei registi, o ho frainteso?

Più che della megalomania dei registi volevamo parlare della loro frustrazione. Nel  personaggio di Fabrizio ci siamo io e Paolo che vorremmo fare film ad alto budget come quelli americani e che non possiamo, era un modo di prendere in giro chi fa questo mestiere che spesso si crede un genio”.

Benissimo la satira, il gioco meta cinematografico con lo spettatore, il richiamo al folklore italiano, ma sembra quasi che in Italia non si possa fare un film horror che si prende sul serio, contemporaneo, magari urbano, è così?

Dici un film alla Hereditary? (ride). Sì, credo sia possibile, ma molto difficile. Il punto è che non sono sicuro che ci siano produttori pronti a scommettere su un film di quel tipo. Se ci sono io non li ho conosciuti. L’aggancio al folklore e ai miti della tradizione nazionale è importante per i distributori che guardano al mercato di riferimento che è in primis sempre quello del tuo paese”.

Anche se il genere è molto cambiato negli ultimi anni a partire dai film di Jordan Peele e Ari Aster?

Fino a dieci anni fa credo che A classic horror story sarebbe terminato con un demone; oggi l’horror ha preso direzioni differenti grazie ad autori come Aster che ci hanno mostrato come si può spaventare con la realtà di tutti i giorni e con la società che ci circonda. Nel nostro film infatti si parte da Raimi per approdare a oggi, all’inquietante Midsommar, citato apertamente in una scena di gruppo. La realtà può essere molto più spaventosa di qualsiasi elemento soprannaturale, purtroppo: persone reali che fanno cose reali”.

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