La ricostruzione dell’abisso del Bifurno nel film di Michelangelo Frammartino premiato a Venezia

by Modesta Raimondi

In Sala Grande a Venezia ha avuto 10 minuti di applausi, oltre al Premio speciale della Giuria, eppure “Il Buco”, del 53enne Michelangelo Frammartino, è un film difficile da capire con i suoi 93 minuti privi di dialoghi, in cui i rari suoni sono quelli della natura e degli uomini, che producono poco più che passi, versi e qualche risata.

Siamo in Calabria, Parco nazionale del Pollino. Siamo nel 1961. Giovani speleologi scendono al sud, in quel meridione caro alle radici del regista, nato a Milano da genitori calabresi.

I primissimi minuti della pellicola sono dedicati a Milano e alla celebrazione di uno dei suoi più alti grattacieli, quel Pirellone simbolo del boom economico degli anni 60.

In un movimento verticale ed ambizioso, l’uomo del dopoguerra si compiace, guarda in alto, punta al cielo, sogna le altezze, da sempre simbolo dell’evoluzione umana.

In piena inversione con questo modello condiviso e dominante, giovani uomini e donne del Gruppo speleologico piemontese abbassano gli occhi, voltano il capo, pensano all’infanzia del mondo e guardano in direzione di quelle viscere della terra da cui tutto nasce. E scoprono un K2 all’incontrario, senza poi raccontarlo a nessuno, cosi come si farebbe oggi nella società dei social.

Una Lombardia con il naso all’insù celebra il suo sviluppo e le sue glorie, mentre una Calabria muta, mistica e remota vive di poco, di niente. Una televisione in strada per tutto il paese, praterie immense popolate da candide mucche talmente immobili da sembrare contemplative, qualche cavallo, nubi in movimento, il verde, il cielo.

Prima di giungere in prossimità del buco da cui iniziare il viaggio all’ingiù, gli speleologi attraversano paesi spogli e desolati, casette addossate, strade minuscole come sentieri. Difficile anche comprendere che si tratti della stessa Italia. Il Buco è il luogo simbolo da cui inaugurare la loro impresa, la loro discesa verso il basso, la scoperta del mondo all’incontrario, occulto, quello che non si mostra alla vista dei contadini e degli animali che pure lo abitano.

Il film ricostruisce la spedizione nell’Abisso del Bifurno condotta nel 1961 da un gruppo di speleologi settentrionali, che nel loro cammino all’inverso in un sud da cui tutti scappavano, scoprirono una delle grotte più profonde del mondo, l’abisso del Bifurno appunto: lungo poco meno di 700 metri.

Molti degli attori sono speleologi e la calata verso il basso è autentica. Autentiche le immagini riprese dalla telecamera che è scesa a centinaia di metri di profondità.

A poca distanza dagli speleologi, di cui lo spettatore fatica a riconoscere lo spirito guida, c’è un vecchio uomo, un pastore. Il suo volto racconta la storia, la terra, la natura, il sole e il vento che ne hanno disegnato ogni ruga: è scuro e scarnito, silente ed espressivo, immobile alle risate dei compagni.

Trascorre le sue giornate all’ombra di un albero, seduto sulla terra della sua valle, al pari di uno dei suoi animali da pascolo. Come le mucche scruta la natura e l’infinito, lascia che il tempo gli scorra addosso. I solchi sul suo viso sono materia privilegiata per un quadro, una foto d’autore, una metafora credibile di quella stessa terra che misticamente osserva.

E come se fosse egli stesso la grotta e la terra, il vecchio si distende, si ammala e infine muore man mano che gli speleologi raggiungono il fondo dell’inghiottitoio.

Qual è il rapporto tra l’anziano pastore e la grotta del Bifurno? I passi degli speleologi hanno profanato la valle di cui il suo volto è metafora, ed è a causa di questa profanazione che egli muore? O forse è un custode della grotta e dei suoi segreti e nel passaggio della conoscenza ad una generazione più giovane può finalmente lasciarsi andare, in una sorta di staffetta del sapere che passa di mano in mano, dal vecchio al giovane, dal sud al nord e viceversa? Del resto i pastori aiutarono molto gli speleologi, con le informazioni su un sito che oggi Frammartino consegna a noi spettatori.

Forse il vecchio incarna il segreto delle viscere, che una volta illuminate perdono il buio e il mistero?

Non sappiamo cosa abbia voluto dirci Frammartino con questa sua pellicola che è piaciuta a Venezia. Magari aveva in mente la storia dell’uomo, la cui evoluzione dovrebbe prevedere il buio e le profondità oltre che le altezze e la luce, in una riconquista di ciò che è basso. O forse pensava solo a sé stesso, alla sua coscienza e alle sue radici calabresi che in questo modo ha inteso celebrare.

Forse uno dei significati nascosti ha a che fare con una critica al consumismo, col bisogno di guardarci a fondo. O più semplicemente, nelle sue intenzioni c’era solo quella di produrre un documentario su un’impresa eroica dimenticata dal tempo, che aveva come location la sua terra madre. Fatto sta che oltre che nella grotta, Frammartino ci porta per mano in una serie di riflessioni. Il suo film genera pensiero. E questo è uno dei suoi valori più grandi.

Tra i temi cari, quello delle radici che muovono le azioni; la grotta (platonica) come miniera da cui attingere senso; il dialogo tra nord e sud che negli anni 60 parevano ancor più diversi di oggi; il movimento introspettivo, speculare e contrario da cui partire per inventare un progetto; il fascino di una frontiera sconosciuta in un mondo in cui ogni cosa è mappata, come ha detto lo stesso regista a Venezia; il parallelo tra due viaggi interiori nella terra e nell’essere umano.

Il film ha goduto della consulenza dei protagonisti di allora, ed è diretto da Michelangelo Frammartino con Leonardo Zaccaro e Jacopo Elia. Distribuito da Lucky Red è nelle sale dal 23 settembre.

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