La società della neve e gli “eroi” delle Ande che indagarono il mistero della dicotomia Natura-Cultura

by Antonella Soccio

Complici forse i cambiamenti climatici, che hanno trasformato le festività di Natale in Italia in lunghissime giornate in cui si boccheggia per le temperature tiepide e per le troppe calorie ingurgitate, è subito svettato in cima alla top ten dei film più visti di Netflix lo struggente e bellissimo lungometraggio spagnolo La società della neve, diretto da Juan Antonio Bayona, dove almeno sullo schermo ci si ricorda un po’ per analogia ed emotività cosa significa avere i geloni. E in qualche scena meno macabra e raccapricciante si prova anche un pizzico di rimpianto.

Tratto dal libro omonimo di Pablo Vierci, La società della neve – Society of the Snow (La Sociedad de la Nieve), scelto per chiudere la Mostra del Cinema di Venezia 2023 e selezionato dalla Spagna per rappresentare la penisola iberica ai prossimi Oscar 2024, è una coproduzione tra Stati Uniti, Uruguay e Cile patrocinata da Netflix e racconta la nota storia vera del disastro del Volo 571, schiantatosi sulla Cordigliera delle Ande negli anni Settanta, che ha già ispirato due film, nel 1976 I sopravvissuti delle Ande, e poi nel 1993 Alive – Sopravvissuti di Frank Marshall, dove il protagonista e vero motore di salvezza, Fernando Parrado, era interpretato da un giovane Ethan Hawke.

Nel film di Bayona uno straordinario Enzo Vogrincic Roldán interpreta Numa Turcatti, uno dei sopravvissuti allo schianto, statuario, coraggioso, impavido, religioso e dal carattere coriaceo deceduto poi per malnutrizione. Nel cast anche Matías Recalt (Roberto Canessa, sopravvissuto), Agustín Pardella (Nando Parrado, sopravvissuto), Tomas Wolf (Gustavo Zerbino, sopravvissuto), Diego Vegezzi (Marcelo Pérez del Castillo, il capitano, sopravvissuto allo schianto e morto sotto una valanga nei giorni successivi), Esteban Kukuriczka( Adolfo “Fito” Strauch, sopravvissuto), Francisco Romero (Daniel Fernández Strauch, sopravvissuto) e Rafael Federman (Eduardo Strauch, sopravvissuto).

Ma torniamo al disastroso fatto di cronaca sudamericana. Il Volo 571 faceva parte di un progetto messo in piedi dalla Fuerza Aérea Uruguaya, che dava in affitto i propri aerei, compresi di piloti militari professionisti, come voli charter. Il volo a bordo di un Fokker F27, venne prenotato dalla squadra di rugby degli Old Christianas Club, che doveva attraversare le Ande per giocare una partita in trasferta, partendo da Santiago del Cile.

A bordo c’erano 45 persone, tra giovani giocatori, amici e familiari più cinque membri dell’equipaggio. Dodici persone morirono subito al momento del violento impatto all’altezza del Glaciar de las Lagrimas, nel dipartimento argentino andino di Malargue nella provincia di Mendoza. Altri passeggeri persero la vita nei giorni successivi, a causa delle ferite, del freddo glaciale e della fame.

I sedici sopravvissuti lasciarono la neve delle Ande, solo 72 giorni dopo, il 22 dicembre.

Il disastro aereo delle Ande, come si sa, sconvolse l’opinione pubblica per la modalità con cui i giovani riuscirono a salvarsi. Con una decisione comune, come in una piccola comunità, i ragazzi affrontarono un tabù assoluto dell’umanità, ossia il cannibalismo. Si nutrirono per oltre 60 giorni della carne umana dei loro amici e parenti deceduti. Senza per questo cadere nell’abisso della bestialità delle specie. Restarono umani. E miracolosamente uniti.

Cosa è successo sui monti? Come avete vissuto tra le montagne? Sono queste le domande che Numa si pone e porge ai vivi in una sorta di epistolario dall’altro mondo.

L’accaduto e il film mettono lo spettatore di fronte a interrogativi esistenziali archetipici: è un diritto vivere? Sono un diritto la giusta sepoltura e il ricordo di chi resta? E a quale costo? È giusto che l’istinto di sopravvivenza faccia regredire l’umano ai suoi bisogni primari? È etico abbandonarsi e morire? Il corpo sovrasta l’anima in condizioni di assoluta privazione e ritorno all’essenza?

Natura e Cultura, il film indaga sul valore intrinseco della dicotomia che fonda la civilizzazione e la Storia. Non è un caso se molto di quello che sappiamo del passato della specie passa dal culto dei morti. Dalla loro sacralizzazione.

Sulla neve i rugbisti, pari fra i pari, giovani figli e futuri uomini, eroi, come vennero poi chiamati dopo il ritrovamento, creano una nuova società e trovano una propria regola, fatta di solidarietà, di gerarchie tacite, di fede nel divino e nell’umano. Come dei nuovi Argonauti dettano i tempi della vita sulla neve, scandiscono la bellezza del sole dalla notte che immobilizza e raggela. Razionano le proteine e costruiscono la condizioni della speranza, affidandosi a diverse spedizioni. Alla fine due uomini Fernando Parrado e Roberto Canessa (tutt’ora in vita) si incamminarono verso il Cile, a piedi. Era il 12 dicembre 1972, due mesi dopo il disastro. Scalando la Cordigliera per sette giorni, seguirono il corso d’acqua di un fiume, dove incrociarono un mandriano, chiedendo finalmente aiuto. Da lì arrivò il salvataggio da parte del mondo civile.

Il film si lascia guardare interamente, senza cali di attenzione o noie, per la magnifica interpretazione del gruppo di attori e per una reale aderenza a quello che deve essere successo tra i monti. Non si risparmiano scene crude e non si sorvola sul tema del cannibalismo, anzi. Tra disgusto intestinale ed ethos pubblico. In molti spettatori resterà il dubbio di come si sarebbero comportati se fossero stati nei panni dei giocatori uruguaiani.

Di notte, tra la neve immacolata, sotto un cielo stellato, sono gli uomini gli intrusi, si dicono nel primo giorno dopo lo schianto i rugbisti sopravvissuti e accampati nel relitto dell’aereo. Ma giorno dopo giorno, l’umanità trova il suo senso, rintraccia la sua voglia di esserci, la sua traccia, anche in un ambiente naturalmente ostile. Il regista sembra dirci che il bene, l’amore, l’attaccamento alla vita vincono ogni avversità, soprattutto quando questo bene viene messo in comune, nella relazione sociale.

Da non perdere assolutamente.

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