La vita (e tutto il resto) di Marina Cicogna: «Il vero lusso è quello di stare bene nella propria pelle»

by Felice Sblendorio

Ascoltare Marina Cicogna significa rievocare un tempo dorato, luminoso, rarefatto: un tempo raro. La Contessa, nata fra il casato Cicogna Mozzoni e la stirpe dei Conti Volpi di Misurata (suo nonno, Giuseppe, inventò la Mostra del Cinema di Venezia),è stata la prima produttrice cinematografica italiana, ha prodotto film entrati nella storia del cinema, ha vinto un Oscar nel 1971 per “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri. Oggi, è l’ultima testimone di stagione ricca e indimenticabile.

Ricorda gli amici e i fantasmi di una vita, ma guarda al futuro, sempre sicura e fiera di sé. Serve semplicemente il nome a testimoniare un’amicizia non di circostanza. Allora ricorda e racconta di Pier Paolo, Gianni, Marlon, Alain, Marilyn, Florinda, Maria. I cognomi, qualora ce ne fosse bisogno, servono solo a noi: Pasolini, Agnelli, Brando, Delon, Monroe, Bolkan, Callas.

Marina Cicogna, 87 anni e una vita che non si fa fatica a definire incredibile. In molti hanno tentato di incasellarla, non riuscendoci mai. Chi è, allora, la Contessa Cicogna?

Non lo so. Forse una persona indipendente, impaziente, libera. Io cerco di vivere nel presente, non chiusa nei ricordi del passato, con un futuro abbastanza breve davanti a me.

È uscito da poco il documentario “Marina Cicogna. La vita e tutto il resto”. Si è riconosciuta in quel ritratto corale?

Sì, abbastanza. A me è piaciuto: è ben girato e mi piace lo stile di Andrea Bettinetti. Ho visto tanti documentari su svariati personaggi che erano noiosi, monocordi, mentre questo non mi è dispiaciuto. Poi, sa, giudicare un prodotto che parla di sé stessi non è bello, ma posso certamente dirle che è un buon lavoro.

In molte scene ritorna al suo passato.

Il passato per me significa soprattutto nostalgia e tristezza per un mondo che ho amato e che oggi non esiste più: è scomparso.

Un mondo così lontano nel tempo per cultura, educazione, miti.

Lontano dal nostro in tutti i sensi. Questo mezzo secolo ha prodotto un cambiamento epocale. Viviamo in un mondo che si sta disgregando. Ci sono cose che mi danno una specie di gelo al cuore, cose che non riesco a leggere senza essere sconvolta. Sono contenta di non avere figli a cui lasciare un futuro che ha gravi punti di domanda e di conflitto.

Lei è una delle ultime protagoniste di una stagione indimenticabile per il cinema italiano. Oggi è tutto così diverso. Non riconosce più la sua comunità culturale?

I talenti non nascono dal nulla, ma sono favoriti da un certo ambiente, da un determinato periodo storico. Anche oggi ci sono molti talenti, ma non c’è più quell’atmosfera, quell’enorme quantità di gente che si incontrava, lavorava insieme, discuteva. I miei anni sono stati densi e pieni di contaminazioni. C’erano registi, attori, pittori e scrittori geniali: novità e scoperte costanti. Oggi quel mondo lì si è molto ridotto. E c’è un trionfo del cattivo gusto che, secondo me, ammazza molte cose.

Lei ha scoperto talenti che, all’epoca, erano poco noti. Come si riconosce il talento?

Da una scintilla. Credo che Luchino Visconti avesse questo dono. Un dono, appunto. Oppure una sensazione, un occhio abbastanza abituato che uno può avere anche senza rendersene conto. È una cosa molto poco definibile. Io ho scoperto gente che stava cominciando, era giovane e aveva la possibilità di fare meglio, di continuare. E non parlo solamente di registi, ma anche di figure tecniche. A volte si sbagliava, come quando misi assieme per “Metti, una sera a cena” Peppino Patroni Griffi e il fotografo Tonino Delli Colli, mentre altre volte si creavano sodalizi duraturi come quello fra Elio Petri e Luigi Kuveiller. Dipende anche dai tratti caratteriali che è bene siano misurati. Ma riconoscere un talento rimane un istinto, un lampo fulmineo.

Oggi c’è qualche regista che produrrebbe?

Ce ne sono tanti di registi interessanti. Forse, però, a un Sorrentino non serve avere un grande produttore, come non serve nemmeno a Garrone, perché alla fine loro sono molto indipendenti. Mi piacerebbe lavorare con Saverio Costanzo, un regista aperto alla discussione, all’interesse altrui. Detto ciò: non è più il tempo di collaborazioni fra produttori e registi. Il produttore, attualmente, è soprattutto uno che trova soldi, finanziamenti.

Ha prodotto i film di Petri, Leone, Rosi, Pasolini, Wertmüller. Film importanti, non solo per la morale, per il messaggio politico. Cosa contava, per lei, in un film?

I film che ho prodotto per me dovevano essere interessanti. Mi doveva stupire il progetto e mi doveva piacere produrre quel film su una base di credibilità con il regista, gli attori e con tutti coloro che circondavano quel processo creativo. Io non ho mai avuto manie di protagonismo: ho fatto la produttrice dietro le cose, controllando e scommettendo su film che erano ritenuti poco commerciali. Non era semplice produrre quel tipo di cinema, ma in quel momento non me ne rendevo conto.

Lei è stata la prima produttrice italiana donna. Un’apripista in un mondo dominato all’epoca da uomini.

Personalmente non ci pensavo, me ne sono accorta dopo. Non mi sono mai cullata sul fatto che fossi la prima donna in Italia a fare la produttrice. Io ero una ragazzina, avevo ventisette anni. Ero concentrata sulla mia grande passione per il cinema che ero riuscita a realizzare. In un periodo relativamente breve avevo ottenuto le cose che volevo. Facevo e producevo quello che mi piaceva, quello in cui credevo. Non ho mai sentito un senso di inferiorità rispetto ai miei colleghi uomini.

Gli uomini, però, le hanno fatto pesare questa differenza?

Spesso. Mario Cecchi Gori, ad esempio, una volta venne da me in ufficio. Si sedette, restò per alcuni minuti fermo e poi rimase in silenzio. Continuava a guardarmi, mentre aspettava il produttore. Nella sua testa, ovviamente, un uomo.

Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, ha detto che lei è una donna autoritaria.

Sì, sicuramente, in certe cose può darsi che io lo sia. Non faccio il piccolo dittatore, ma ho sempre esposto le mie idee, cercando di spiegarle in maniera definitiva, precisa. Io non sono una molle, che cambia idee tutto il tempo. Sono una persona aperta alle idee degli altri, ma ho sempre trovato coerente e giusto difendere le proprie scelte, le proprie posizioni.

Pier Paolo Pasolini potrebbe testimoniare sul punto.

Pier Paolo ha sempre avuto molta libertà con me. “Medea” partì proprio con Maria Callas, mentre per “Teorema” ci fu un dialogo fra noi due. Quel film è particolare, provocatorio, diverso dagli altri, in cui ci sono dentro un pochino di cose mie. Pasolini venne da me con due pagine di sceneggiatura e gli dissi che dovevo scegliere con lui alcuni attori. Imposi Terence Stamp e gli dissi, francamente, «non voglio vedere uno di quei tuoi ragazzi di borgata».

Si è mai considerata una donna di potere?

No, perché non lo sono mai stata. Anche negli ultimi tempi non ho mai avuto posizioni che sarebbe stato abbastanza normale darmi nel mondo del cinema. Per una presidenza bisogna sempre occuparsi di politica. Una noia.

Lei di politica non si è mai interessata, infatti.

Non si può dire che non abbia interesse per la politica. L’interesse, purtroppo, spesso viene deluso. La politica non è mai stata la mia passione, nonostante abbia fatto dei film con persone molto schierate ideologicamente. A me interessavano le idee, non le posizioni politiche. La politica non mi ha mai divertita.

Una sua delusione politica?

Il mondo del cinema gravitava attorno al Partito Socialista. Craxi l’avevo conosciuto a Milano con sua moglie. Arrivato a Roma, con i suoi salotti, divenne un po’ trash. Era tutto così poco limpido, così pasticciato.

Lei ha abbandonato il cinema dopo la morte di suo fratello, Bino. È il suo più gran rimpianto?

È il mio rimpianto sì, perché alcune cose si potevano ancora fare. Anche se quando ritornai dagli Stati Uniti notai già una provincializzazione molto forte del nostro cinema. Stava cambiando tutto, i film maggiori erano quelli di Renato Pozzetto, la commedia all’italiana, difficilmente esportabile all’estero. Erano cose molto carine, ma non era un cinema che mi divertiva. Anche se devo confessare che il mio film preferito è “A qualcuno piace caldo”, una commedia: ma una commedia fatta in modo straordinario, non un filmetto.

Un film che si è pentita di non aver prodotto?

Il conformista” di Bertolucci.

Il cinema, in questi anni, è stato assediato dalle battaglie del politicamente corretto. Alcuni registi sono stati banditi.

Io sono assolutamente contraria a bandire le persone, al rogo degli artisti. Woody Allen è stato assolto due volte, ma comunque è stato epurato. Per me tutta la storia del Me Too è eccessiva, mi comincia a infastidire.

Non è pericoloso confondere la morale, l’etica e la giustizia con l’atto creativo?

Ma cos’è la morale? È immorale se lei in ascensore tocca una donna? Io non lo so. Non credo serva andare in tribunale per sciogliere questo interrogativo. Parliamo di cose più serie, questi sono atteggiamenti assurdi.

È questione di educazione, forse.

Esatto. Se lei mi tocca il sedere in ascensore non è immorale, ma è un gran maleducato. Non è una questione di morale, ma di educazione.

Lei è nata in una famiglia aristocratica. La bellezza, il garbo, il lusso erano una consuetudine…

Sì, sono nata in una famiglia aristocratica, ma c’è lusso e lusso. C’è il lusso alla Trump e un lusso del buongusto e delle cose semplici. Il lusso per me è una certa genuinità, una qualità degli oggetti, delle case, dei quadri. Il lusso più grande, poi, è la cortesia, l’educazione. Oggi l’educazione manca, tutti si auto-permettono di fare tutto: mi sembra allarmante.

L’eleganza è nemica dell’ostentazione?

L’ostentazione di tutti i tipi è sempre di cattivo gusto. Il vero lusso è quello di stare bene nella propria pelle.

Nel documentario in molti ricorrono al concetto di libertà per descriverla. La sua libertà maggiore?

Quella di viaggiare, di conquistare il mondo. La mia grande libertà, poi, è stata quella di vivere con chi volevo. All’epoca non avevo una coscienza particolare, ma il fatto di vivere in tranquillità prima con Florinda e ora con Benedetta per me non era e non è una questione di libertà, bizzarra o anticonformista, ma una cosa normale, semplice. La libertà l’ho ricercata dentro di me.

Libertà di amare, senza etichette. Oggi sembra quasi impossibile non definirsi, non definire.

Tutto deve essere etichettato, definito. Devi dire di te stesso sono di qui, sono di lì. Questa mania di definire le cose, dalla libertà personale a quella sessuale, è tremendamente noiosa, inutile, moralista.

Oggi, qual è la sua paura più grande?

Ho paura di annoiarmi, di vedere gente che non mi interessa. Ho paure infantili, poi, come il maltempo sull’aereo.

Lei è notoriamente un’impaziente.

Impaziente per le perdite di tempo, le cose inutili, le persone che parlano solo di sé. L’impazienza poi peggiora con l’età. Anche Gianni Agnelli era impaziente, si sfilava piano dalle situazioni noiose. Io, invece, sono più veloce. Quando mi scoccio, a una cena o una festa, annuncio «buonanotte», ed esco di scena.

In molti l’hanno descritta come algida, glaciale. Si commuove mai Marina?

Non ho nessuna comprensione verso queste definizioni di me stessa. Le dico una cosa personale: in Svizzera mi hanno detto: «Signora, lei ha un cancro». Potevo piangere, invece ho mantenuto un mio autocontrollo, che non può essere confuso per glacialità. È come se vedessi tutte le cose con un distacco, come se vedessi la mia vita attraverso un vetro.

Il futuro, per lei, che cos’è?

È un giorno per giorno. Io non ho mai pensato molto al futuro. Oggi non lo vedo né con occhio critico né con occhio creativo. Bisogna sbrogliare i problemi e vivere in maniera civile, anche dal punto fisico, con la vecchiaia.

La vecchiaia non sembra averla scalfita: lei è impeccabile.

Credo nella disciplina. Non ho mai avuto vizi minori: mai fumato, bevuto alcool, Coca cola, messo la lingua nel whisky: pessimo. Mi sono molto divertita, certo, ma mi ha salvata la curiosità. Quando perdi la curiosità, sei morto. A me non è ancora successo: una fortuna.

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