L’apprendistato, al Torino Film Festival la riflessione sul sistema educativo pubblico di Davide Maldi

by Giuseppe Procino

In un prestigioso e rigido collegio alberghiero, Luca impara l’arte del servizio. Il ragazzo è cresciuto tra le montagne e ora il suo destino sembra ormai stabilito: diventerà un cameriere di hotel. L’istituto sembra essere disciplinato da regole ferree e da una didattica quasi militare che non presuppone domande ma solo esecuzione degli ordini. Può davvero Luca apprendere un’attitudine che non gli appartiene? Quanto della sua libertà e adolescenza dovrà sacrificare in virtù dell’arte del servire i clienti?

Dopo Locarno, “L’apprendistato” arriva in competizione al trentasettesimo Torino Film Festival nella sezione TFFDOC/ITALIANA, dove si è aggiudicato il premio speciale della giuria.

L’opera seconda di Davide Maldi arriva diretta come un pugno in faccia e ci offre una riflessione interessante e brutale sulla scuola dell’obbligo come sistema formale e obsoleto incapace di coinvolgere ma solo di reprimere. È un racconto efficacissimo, un’intelligente analisi della realtà del sistema educativo italiano forse spesso troppo standardizzato e obsoleto, repressivo di qualsiasi possibilità di reazione. Una sorta di leva militare obbligata in cui s’impara a soffocare la propria natura e basata sulla cieca obbedienza. Ovviamente Maldi prende come esempio una situazione estrema ed estremizzata, un istituto in cui la regola è l’esecuzione, in cui si crea l’uomo senza anima, interprete della volontà del cliente che ovviamente diviene padrone. La scuola diviene così il rito di passaggio tra un’infanzia spensierata e un’età adulta in cui si apprende immediatamente la struttura gerarchica sociale: L’arte del servire in maniera impeccabile, fatta di formalismi e regole prive di una reale logica. C’è, in quest’opera, la volontà precisa di raccontare e il racconto scorre tra animali impagliati, ritualità assurde, cucchiai e la perdita di percezione di un mondo fatto di cose concrete in cui sembra acquisire un’importanza decisiva, la distanza tra piatto e cucchiaio, in cui l’agire secondo schemi diviene fondamentale anche quando nessuno ci osserva. Quella di Luca è un’adolescenza che è tenuta a bada dall’imposizione del mondo adulto e da cui emerge in tutta la sua forza, lo spaesamento dell’impossibilità di poter essere se stessi deludendo le aspettative. È una linea che demarca il confine tra libertà e coercizione, tra autodeterminazione e dovere.

“L’apprendistato “è, così, un’opera che ricorda le grandi riflessioni di Truffaut sull’infanzia e che vive assolutamente di luce propria. Un gran bel lavoro che colpisce e affonda nel suo essere un coming of Age su cui aleggia una violenza silenziosa, un ritratto sincero che appartiene al cinema del reale ma attinge a piene mani dal cinema di finzione rubandone le caratteristiche peculiari come la sceneggiatura o la fotografia patinata, confondendo così lo spettatore in reale difficoltà nei confronti della verità che restituisce l’immagine. Proprio grazie a questo linguaggio affascinante, giocando con le inquadrature, i dettagli, i rumori e le voci fuori campo diviene palpabile il senso di alienazione che pervade l’intero racconto e che coinvolge lo spettatore, lo spinge in un mondo in cui le dimensioni di spazio e tempo sembrano quasi sconosciute o dilatate. In questa creatura meticcia e ibrida che vive magnificamente in questo limbo tra generi, il collegio diviene una monade ma anche uno specchio che riflette il macrocosmo sociale diviso tra chi comanda, chi esegue, chi si ribella e in cui l’eterna condanna sembra essere quella di finire tra le fila della servitù di una struttura ricettiva di basso rango. Maldi realizza così un’opera fortemente autoriale e metaforica che può parlare a più pubblici.

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