Le Favolacce e il cinema dei fratelli D’Innocenzo. La fotografia ingiallita di un’estate maledetta

by Gabriella Longo

Villette a schiera a perdita d’occhio, lunghi viali alberati, il vento che scuote le fronde, ogni tanto un temporale a bagnare la calma imperturbabile di una periferia romana. Lo Spinaceto dei fratelli D’Innocenzo è una favolaccia per davvero, disturbante sin dal titolo, terribile sin dalla copertina, atroce sin da quando la voce off di Max Tortora anticipa le cartoline d’umano orrore delle pagine successive e scoraggia quasi a proseguire la lettura di un libro che non è di quelli per andare a letto sereni: “Quanto segue è ispirato ad una storia vera. La storia vera è ispirata ad una storia falsa. La storia falsa non è molto ispirata”.

Favolacce (vincitore dell’Orso d’Argento per la Miglior Sceneggiatura alla Berlinale 2020), opera seconda dei registi romani, è la fotografia ingiallita di un’estate maledetta, con protagonisti famiglie volgari, che si agitano sudate e fiacche fra le case e il giardino, in una stagione balneare ready-made, inaugurata da una piscina di gomma montata appena fuori la porta sul retro, a disposizione del ludibrio del vicinato, variante economica delle ridenti vacanze al mare.

I bambini che crescono e nascono a Spinaceto, camminano in un solco d’infelicità già scavato dai loro genitori. C’è una guerra senza fronte che si consuma fra la veranda e la porta accanto, combattuta a suon di pagelline da dieci recitate tristemente da questi figli modello, trofei esibiti ai vicini, mentre gli adulti sono senza armi, impegnati a coprire strati di fallimenti con un vernacolo colorito, spinto al limite del bullismo verbale, giochi virili e feste seriali. Hanno costruito un alto muro, lasciando fuori proprio chi aveva più bisogno di rettilinei. Su tutti loro pare si sia abbattuta la furia impietosa del dio del massacro, citando il titolo di una corrosiva commedia di Yasmina Reza, diventata per il grande schermo il Carnage – una carneficina, per l’appunto- di Roman Polanski. È sempre lì, nel lindo e assennato salotto, o in quartieri che assomigliano al plastico assembramento di casette colorate rubate ad una favolaccia altrettanto nera di Burton, che si sgretolano le maschere di benevolenza, tolleranza, dirittura morale, lasciando scoperto il ghigno di quel nume efferato e oscuro che pare governarci tutti sin dalla notte dei tempi.

Si ha spesso la sensazione di essere capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato, di essere complici lontani di un fatto torbido, narrato senza esclusione di colpi in tutta la sua mostruosità ma privo d’esplosioni violente. Si ha da principio il sospetto di una minaccia latente, dal quale si è braccati senza sosta fino all’ultimo minuto, come se qualcosa d’irreparabile sia sul punto d’accadere, e di accadere in maniera pirotecnica, spettacolare. Niente però fa incursione, la ferocia della storia non va cercata altrove; è già lì, tirata a lucido e dannatamente normale, a un tiro di schioppo dalla vista. La macchina da presa, che qui ha il compito di raccontare una favola col suffisso dispregiativo, si fa creatura proteiforme, ora stringendosi su primi piani eloquenti, ora allontanandosi esponenzialmente, per gettare attimi dolenti in pasto a silenzi infiniti, a rumori ambientali, all’incessante cicaleggio della natura circostante. Diventa un animale del cielo per osservare su un alto ramo ciò che accade, ma all’occorrenza anche una bestia dell’acqua per seguire i ragazzini nei pochi, sporadici, rarissimi momenti in cui gli è concesso di godere della spensieratezza della loro età.

Scene rare per il nostro cinema, condensati di prosa senza trine e lustrini. Tutto è a favore di un’economia di sguardo e di quei sentimenti di disprezzo profondi e recalcitranti che si muovono dentro, una sintesi che arriva pura e netta come un cazzotto in piena faccia. Ne è esempio la cena di famiglia a casa Placido, quella con Elio Germano che interpreta papà Bruno, guardata a distanza, come da un passante trovatosi per caso ad assistere ad un fatto grave e che si guarda bene dall’approssimarsene troppo. Al piccolo Denis va di traverso un boccone di carne: l’azione che segue è regia pura, diretta, immobile come chi ha appena visto qualcosa di orrendo, registrazione di un lampo che, col suo bagliore sinistro, illumina il male da cui quel contesto è affetto, e che, gradualmente, sta disgregando ogni cosa. Non esistono i buoni in queste favolacce, persino gli insegnanti sono fabbricatori di incubi al sapore di bombe home-made e insetticidi di cui si svelano le formule con troppa leggerezza. Astri nascenti nel panorama italiano, Damiano e Fabio Roberto D’Innocenzo avevano già consegnato alle pesanti iniezioni di noir de La terra dell’abbastanza, una dichiarazione d’intenti su un modo nuovo di fare cinema. E non è un caso se le loro Favolacce sono adesso paragonate alla mordacia del Parasite di Bong Joon-Ho, al quale certo deve quel modo di raccontare una storia come fosse una cronaca sporca, nel vero senso del termine, di dire le cose come stanno senza preoccuparsi di mostrare quanto dolore e quanto ribrezzo c’è nel narrarle.

Alla fine della favola, resta l’amaro con cui era iniziata. Si è detto, non si va da nessuna parte, semmai si rimane, sempre lì, sullo stesso divano, con i vestiti incollati addosso, l’aria asfittica e il cielo pesante sulla testa, ad ascoltare inebetiti e vagamente narcolettici la voce della cronaca nera al tg, via via sempre più lontana, come se non fosse nemmeno più un fatto di questo mondo.

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