L’incanto e la meraviglia nel Pinocchio di Matteo Garrone

by Nicola Signorile

Ognuno di noi ha le proprie ossessioni fanciullesche. Fin da bambini c’è qualcosa che colpisce in modo particolare il nostro immaginario in formazione e che ci porteremo dentro a lungo. Fortunato è l’artista che può rendere reale una materia che per anni ha fatto parte unicamente delle sua immaginazione.

Se non si parte da lì, non si può comprendere la passione con cui Matteo Garrone si è dedicato al suo Pinocchio, coproduzione internazionale Italia/Francia, prodotto da Archimede con Rai Cinema e Le Pacte (con Recorded Picture Company, in associazione con Leone Film Group): il progetto al quale ha lavorato per quattro anni, dopo averne fantasticato per una vita intera.

Il risultato è una favola fantasy che ci guida alla riscoperta del testo originale di Collodi; un racconto che tutti conosciamo (o crediamo di conoscere?) al quale si avvicina con grande rispetto e adesione filologica. A testimoniare l’importanza del personaggio nella cultura popolare c’è la quantità di tentativi di portare sul grande schermo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino sin dal primo, nel 1911, di Polidor, il comico franco-italiano Ferdinand Guillaume, poi il film Disney nel 1940, una serie animata giapponese, un cartoon russo e tanti altri, fino allo sceneggiato Rai di Luigi Comencini, il più celebre e amato. Ad interpretare il burattino animato ci hanno provato Totò, Mickey Rooney, Roberto Benigni, Carmelo Bene a teatro e in televisione.

Quello del regista di Gomorra e Reality è un romanzo di formazione forse più adatto a un pubblico di bambini (a parte la scena dell’impiccagione) che mescola la realtà di un’Italia povera e contadina a elementi di fantasia e soprannaturale, scaldando davvero il cuore degli spettatori soprattutto quando in scena c’è Roberto Benigni con il suo umanissimo Geppetto.

Le scene tra Pinocchio (il piccolo Federico Ielapi), più bambino dei bambini veri, e Geppetto sono tra le più riuscite: quando vediamo il “neo-papà” portare per mano a scuola il suo “figliolo” non possiamo non pensare a La vita è bella. La catarsi è compiuta per l’artista di Castiglion Fiorentino, a 17 anni dal suo controverso Pinocchio che portò la carriera del fresco premio Oscar a prendere una direzione forse errata. Il suo Geppetto ha la meraviglia negli occhi, diverte ed emoziona come solo il Benigni attore sa fare; sprigiona amore per la creatura che ha preso vita sotto i colpi del suo scalpello. Il suo è un piccolo mondo sincero, vitale che Benigni conosce bene, lo si percepisce. Una miseria e una fame dai tratti evidenti che indossa con toccante dignità, a cominciare dalla bellissima scena in osteria che ce lo presenta.

Visivamente il Pinocchio di Garrone è un’esperienza di grande pregio. Prendono vita le illustrazioni di Enrico Mazzanti, contenute nella prima edizione in volume di Pinocchio del 1883, una serie di bellissimi quadri viventi dall’indubbia ispirazione macchiaiola, innestati sui tanti paesaggi pugliesi in cui è stata girata la pellicola. Dalla separazione tra padre e figlio, iniziano le prove e le esperienze che porteranno Pinocchio a cambiare e a crescere.

Il burattino vuole vivere pienamente, vuole essere “come tutti gli altri bambini” anche se è fatto di legno. Sulla sua strada ci saranno il burbero eppur tenero Mangiafuoco di Gigi Proietti e i suoi burattini che avrebbero meritato più spazio. Insieme a loro, conoscerà l’amicizia e il sacrificio per il prossimo. Imparerà a non fidarsi di chi gli promette di diventare ricco dalla mattina alla sera, come La Volpe (Massimo Ceccherini) e Il Gatto (Rocco Papaleo). Una grande chance per il comico toscano, come al solito un po’ sopra le righe – all’opposto il compare, del tutto in sordina – ma che è anche co-sceneggiatore del film; del resto conosce bene la materia, avendola portata in teatro nei panni di narratore, Lucignolo e persino Fata Turchina!

Ecco, la Fata Turchina. Scopriamo qualcosa di non troppo noto su questa figura che appare per la prima volta nella storia con le fattezze di una bimbetta dai capelli turchini (Alida Baldari Calabria), compagna di marachelle di Pinocchio mentre la sua figura adulta risulta decisamente evanescente dietro le splendide sembianze dell’attrice francese Marine Vacth (memorabile in Giovane e Bella di Ozon).

Nulla è lasciato al caso nel Pinocchio garroniano:  ambienti, facce, suoni, vedi gli scricchiolii che accompagnano ogni movimento di Pinocchio. Ogni bugia detta fa allungare il suo naso, a tal punto da ospitarvi uno stormo di uccellini beccanti davanti a una divertita Fatina, in una sequenza che lascia a bocca aperta. La casa in cui la bambina e la sua cameriera Lumaca accolgono Pinocchio dopo le disavventure con Il Gatto e La Volpe fa fare allo spettatore un salto immaginifico in una delle novelle dark di Tale of Tales, grazie ai costumi di  Massimo Cantini Parrini e alle scenografie di Dimitri Capuani.

Matteo Garrone sceglie il team che lo ha affiancato in Dogman, compreso il direttore della fotografia Nicolaj Brüel. La barocca Lumaca di Maria Pia Timo con la sua scivolosa bava è occasione per evidenziare lo spettacolare lavoro di make up prostetico, portato avanti da uno dei grandi di quest’arte, Mark Coulier, due premi Oscar per Grand Budapest Hotel e The Iron Lady: gli animali nella favola di Collodi sono allegorie degli umani vizi e virtù, Garrone anche qui rispetta il testo disseminando il film di creature antropomorfe, dal divertente giudice scimmiesco di Teco Celio al Grillo Parlante/Davide Marotta, fino al commovente tonno di Maurizio Lombardi.

Ci saranno ancora tante prove per Pinocchio, in un cammino di iniziazione alla vita e di redenzione non lineare che, nonostante gli inciampi, gli farà riscoprire l’amore per Geppetto. Ci sono Lucignolo conosciuto sui banchi di scuola e Il Paese dei balocchi, L’Omino di burro e la trasformazione in asinello, il Circo e il Terribile Pesce-cane, la fuga insieme a Geppetto e la scoperta del lavoro e del sacrificio. Tutto puntellato dalle musiche di un altro premio Oscar come Dario Marianelli.

Tanta Puglia nelle location: il mare di Polignano e Monopoli, il piccolo teatro-gioiello di Noicattaro, le campagne ostunesi e della Murgia e il cuore antico di  Spinazzola. Tanta Napoli nel cast, con Davide Marotta, Gigio Morra, Massimiliano e Gianfranco Gallo. Lasciano il segno il terribile maestro di scuola di Enzo Vetrano (come dare torto ai bambini che marinano la scuola?) e L’Omino di Burro, impersonato da Nino Scardina; Paolo Graziosi invece è Mastro Ciliegia.

La ricercatezza tecnica prevale sull’emozione? Per chi, cinefilo garroniano di ferro, si aspettava una rilettura personale del Pinocchio di Collodi, probabilmente sì. Tuttavia, i pregi prevalgono di gran lunga sulle pecche in una operazione che suscita incanto e meraviglia nello spettatore. Una favola morale piena di insegnamenti che in fondo spiega ai bambini che non è possibile vivere una vita fatta solo di marachelle. Per ottenere quello che vogliamo – in questo caso diventare un bambino vero – Pinocchio dovrà aiutare Geppetto, impegnarsi, superare prove, cadere e rialzarsi, prendersi delle responsabilità. Solo dopo, la Fata Turchina potrà far avverare il suo sogno. Intanto, Matteo Garrone, il suo, lo ha appena visto avverarsi.

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