“Lontano Lontano”, il microcosmo gentile di Gianni Di Gregorio, uscito in soli 28 cinema italiani

by Nicola Signorile

Il cinema italiano è pieno di misteri. Uno su tutti, la ragione per cui si producono molti film che nessuno o pochissimi spettatori potranno vedere in sala. Perché sostenere produzioni di opere di pregio senza supportarne anche la distribuzione in sala? Ultimo di un lunghissimo elenco è Lontano Lontano, un piccolo gioiello uscito in soli 28 cinema italiani, che a cinque anni da Buoni a nulla ci riporta nel microcosmo gentile di Gianni Di Gregorio.

L’attore e regista romano ha tratto il film dal suo racconto Poracciamente vivere, pubblicato da Sellerio all’interno dell’antologia Storie dalla città eterna, scritto dopo una conversazione con l’amico Matteo Garrone (Di Gregorio era tra gli sceneggiatori di Gomorra) su un pensionato povero costretto ad andare all’estero per migliorare le sue condizioni di vita. Un progetto che accomuna i tre protagonisti di Lontano Lontano: Giorgetto, Il Professore e Attilio, interpretati da Giorgio Colangeli, dallo stesso Di Gregorio e dal compianto Ennio Fantastichini, nella sua ultima interpretazione cinematografica. Una commedia dolce, senile, di quartiere e di fine scrittura, come è stato il cinema di Di Gregorio dal Pranzo di ferragosto che gli portò il David di Donatello come miglior regista esordiente. Dopo aver parlato delle donne, del rapporto madre-figlio, del mondo del lavoro, sempre attraverso la sua lente ironica e garbata, Di Gregorio dedica un film alla terza età e alla solitudine, riuscendo ad affrontare temi caldi come l’immigrazione e la crisi economica senza alzare mai i toni, ad emozionare e stimolare riflessioni senza perdere la modestia dei gentiluomini di una volta.

Giorgetto e Il professore sono amici da sempre. Il primo è un tipico esempio di romanità, non è mai andato oltre la Porta Settimiana, il confine di Trastevere, un po’ allergico al lavoro e alle responsabilità, prende la pensione minima e fa fatica ad arrivare a fine mese; l’altro è un uomo mite che ha passato la vita a insegnare latino e greco e ora si annoia parecchio, poco propenso ai cambiamenti, legato ai suoi piccoli riti quotidiani, tra un bicchiere di vino bianco e gli incontri fortuiti per le strade di Trastevere, culla della tradizione capitolina sempre più innervata dagli effetti dell’immigrazione.

Un peregrinare ozioso di uomini soli tra i sessanta e i settanta che vivono il proprio quartiere, girando a piedi, con le buste della spesa, comprano Gratta e vinci in tabaccheria o se ne stanno al sole ai tavolini del bar. Un piccolo mondo incastonato in una Roma che intanto muta forma, si fa più ricca di contrasti e stratificazioni, fotografata con delicatezza dall’autore. Chiacchiere, saluti, mercati e negozietti. La crisi economica si fa sentire, così da uno dei loro incontri nasce il progetto, in principio solo un abbozzo, di trasferirsi all’estero, in uno di quei paesi in cui la vita costa meno. Il buen ritiro dove pagare meno tasse e scaldarsi al sole negli anni che restano da vivere. I dubbi del Professore (“questo è il mondo nostro. Ce semo nati. Ce conoscono tutti”) vengono fuori in uno dei tanti esilaranti dialoghi di Lontano Lontano.

Quasi per caso, i due amici si imbattono in Attilio, che una pensione non ce l’ha e vive nell’estrema periferia della città, a Tor Tre Teste. Giorgetto e Il professore escono dal loro mondo per andarlo a trovare intraprendendo un lunghissimo – o almeno lo sembra – viaggio in autobus per raggiungere un non luogo lontano lontano. Con un asinello vicino alla fermata. Un primo passo incerto verso lidi inesplorati. Attilio sopravvive restaurando mobili, ha una figlia; è il più esperto dei tre, ha viaggiato, fatto cose e visto gente, e sembra il più pronto a vivere una nuova, senile, avventura.

Il terzetto di attori è irresistibile, una delle forze del film. Interpreti intensi, versatili, in grado di dare verità e naturalezza ai personaggi. Con Di Gregorio che si mette al servizio del film, reagendo con bonomia e lasciando maggior spazio ai due compagni in scena; Colangeli bravo a incarnare l’umanità di Giorgetto, le sue paure e incertezze, il gran cuore che sotto la scorza dura lo porta, nonostante le ristrettezze, ad aiutare Abu, un ragazzo del Mali, che ogni tanto va a farsi la doccia a casa sua. Attilio è purtroppo l’ultimo, strepitoso, ritratto nella lunga galleria di personaggi di Ennio Fantastichini, scomparso, a fine 2018, a 63 anni, per una grave emorragia cerebrale. Un robivecchi fricchettone, un po’ cialtrone, che dopo una gioventù turbolenta sta cercando di ricostruire un rapporto con la figlia Fiorella (Daphne Scoccia). La terza gamba di uno spassoso trio che, ricercando un posto al sole per la propria vecchiaia, cercherà di districarsi tra problemi economici e difficoltà burocratiche. Le piccole cose, i dettagli fanno la differenza nel cinema di Di Gregorio.

Non sono tanto le situazioni a suscitare risate quanto le reazioni dei tre interpreti a quello che accade intorno al loro. Come in una memorabile scena nello studio del professor Roberto Herlitzka, che arriva in soccorso dei tre arzilli emigranti, snocciolando possibili mete – rubricate in base a vantaggi fiscali, clima, rispetto dei diritti umani, distanza – fino alla scelta finale delle Azzorre. L’incedere comicamente elegante della pellicola, scritta anche da Marco Pettenello, tra i sorrisi sornioni di Di Gregorio e gli sguardi colmi di senso di Fantastichini, ondeggia tra i preparativi per la partenza e un fondo cassa da tirare su in qualche modo. Bisogna sistemare i propri affari prima di partire, di famiglia e non. Tutto si fa più difficile del previsto, la voglia di cambiare vita si scontra con la mancanza del coraggio necessario a rompere gli equilibri di una esistenza, la paura di uscire da schemi conosciuti e confortanti.

L’autore non manca di porre l’accento sul’indifferenza e sulla sufficienza con cui sono trattati gli anziani nell’Italia di oggi, dall’arrogante dipendente dell’istituto previdenziale alla scena in copisteria in cui solo Il Professore non riesce a leggere delle fotocopie (in cui appare il regista Andrea Segre). Darsi da fare per racimolare qualche migliaio di euro trascina i tre anziani fuori dalla quotidiana indolenza, ognuno a suo modo impegnato, scaricando cassette di frutta o vendendo libri antichi,  per far bella figura con gli altri. Intanto, il sogno dell’altrove li ha spinti fuori dal proprio guscio, a riavvicinarsi ai propri cari o a rivolgere la parola alla donna misteriosa che Il Professore avrebbe voluto conoscere da sempre. Il vero viaggiatore del film è un altro, però: lo scopriamo quasi per caso nella parte finale.

Abu è arrivato in Italia dopo una traversata in gommone, una di quelle raccontate anche da Checco Zalone nel suo Tolo Tolo, vive di espedienti coltivando il sogno di raggiungere il Canada. In fondo, ci sono gli amici, un tetto sopra la testa, quattro risate davanti a una brace e a un bicchiere di vino, il quartiere dove sei nato e cresciuto, il tuo mondo può essere tutto qui. Senza enfasi, né pietismo, si può andar incontro all’altro, con un gesto semplice ma di grande umanità, uno di quelli che ti riconcilia con la vita (e con il cinema). Segno di una fede nel genere umano che Gianni Di Gregorio ribadisce con dolcezza, lontano lontano dal cinismo di questi tempi.

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